Avverto gli stessi brividi della capinera irrequieta che dal colore del sole capisce l’ora di partire. Le piume sventolano, le penne scricchiolano, le scapole si aprono in una prova di volo. Non c’è ragione in quelle ali; l’istinto, che parla una lingua sconosciuta ai più, impone di prendere il volo.
Io parto: con il mio branco attraverso l’epidemia dei campi magnetici avversi che ci costringe ad un’estenuante bolina. E’ un’esperienza nuova per le nostre ali; loro conoscono brume e vapori ma non sanno niente dell’invisibile, che toglie il respiro.
Come fa la capinera, io continuo a volare seguendo una rotta tracciata da un vento di polline e fiori.
Sorvolo terre isolate, città abbandonate, campagne ammutolite. E’ una migrazione senza studio né logica; solo l’istinto mi dice di continuare, e io vado.
L’odore del contagio (che non si vede ma uccide) continua a disorientare. Lo stormo si allarga, si apre, si frantuma in mille frulli e cento voci che intonano ognuna una diversa canzone. Il gruppo si perde dentro correnti fredde di paura che sbandano e confondono. Attraverso la nebbia non si vede altro che il nulla e nessuno riesce più a intuire chi è vicino e se ancora c’è, un vicino.
Lontano, oltre a quella coltre, l'illusione del silenzio sembra buona come il cotone. La mia schiera (o quello che resta) decide per quella luce scialba che sa di rinuncia. E si ferma. Io chiudo gli occhi per non farmi tentare dal vuoto e continuo a volare.
Nella mente (forse di umano, forse di uccello) echi ancestrali si mescolano a forme che ancora non comprendo; è una vibrazione nuova che dorme sotto la pelle, tra le piume o dentro le vene. E’ una scossa senza sequenza né struttura, ma l’istinto mi suggerisce di accoglierla e di seguire la storia.
Allora seguirò il corso del fiume dalle lente anse fino alla città, quella che so da sempre senza averla conosciuta mai. E’ lei il mio miraggio: città di regine, vagabondi e maghi, di assassini e sognatori, città di modelle e minigonne; creste colorate, diademi, catene. Sotto uno dei suoi alberi dai rami cadenti cercherò rifugio.
Esplorerò i pontili galleggianti sulla sabbia che odora di fango, i cieli incerti tra l’ombra e la luce che acceca. Vagherò tra i quartieri di vetro e gli altri, che sanno di carbone e verbena.
Ci sarà un occhio gigantesco a guardarmi le spalle: ogni sera le sue ciglia si tingeranno di rosa, per vegliare sulla notte; la mattina quell’occhio sbircerà il mio sguardo e si chiederà se nei miei sogni sia apparsa, come per incanto, la sua visuale di quiete: uno scenario di palazzi che conoscono l’eterno, di bandiere che sfidano il cielo.
In mezzo alle aiuole piccole anime di bronzo racconteranno leggende d’oltremare rinnovate ogni giorno per lo svago di scoiattoli, cigni, folaghe di passaggio. Sotto i ponti i gabbiani porteranno sulle ali il sapore del vento del nord e dei suoi richiami corsari.
Orologi senza tempo, ad ogni angolo di strada, daranno senso ai tempi che cambiano come cieli di nuvole mosse.
Muto sarà il mio vagare, fino a che la sorpresa dell’alba radente mi farà tornare il fiato per cantare.
Seguendo l’aria della capinera i treni muoveranno dal trotto al piccolo galoppo, i bus allampanati dondoleranno fino alla fermata successiva, gli aerei affronteranno la gravità dell’orizzonte.
E la gente - dico la gente - tornerà brulicare, baciare, abbracciare, vociare, ridere, gridare, litigare.
Non c’è ragionamento né preveggenza; è solo l’istinto, che trasforma ogni arrivo in una nuova partenza.