Il Sole era sorto ormai del tutto.
Guardingo ma rilassato come un serial killer devoto all'hashish, il suo primevo fulgore scendeva dalle montagne per giungere ai declivi fra cui riposava Ariminum. Con la complicità del Garbino – l’infido vento del Sud, polveroso portatore d'acqua – attraversava circospetto i canneti melmosi del Rubicone; strisciava lungo le mura romane ricostruite dai Crociati con le pietre rubate al Tempio di Gerusalemme maledetto da Geova; percorreva i labirinti cittadini srotolando un filo luminoso su piazze, strade, vicoli; e si arrampicava sulle pericolanti grondaie delle abitazioni. Qui sostava – a formulare forse una breve preghiera – prima di calare il pugnale di luce con cui trafiggeva le palpebre di chi ancora non era passato dai sogni del sonno agli incubi della veglia.
In quel momento cruciale, il Maestro e il Custode stavano entrando nel parco giochi dell’Asilo sulla spiaggia, a circa un chilometro dalla Fortezza Bastiani. Il perimetro ottagonale era delimitato da lastre verticali di marmo con coppie di fori tramite cui i bambini potevano sbirciare all'esterno. Nelle tiepide giornate primaverili, quando Adad, il dio della pioggia, aveva terminato di distribuire la sua benedizione, si riversavano fuori dall'edificio e da quei buchi guardavano incantati le linee spezzate delle colline rincorrersi fino al Cliff ariminense per precipitare in mare sotto l’arcobaleno: un paesaggio di pendici e strapiombi, di fasce e terrazzamenti raccolti in macchie rosse, acuminate, ascendendo alle quali l’umano imboccava la via della trascendenza. Gli Appennini si stagliavano in una lontananza prossima dove l’interiore e l’esteriore si confondevano. Erano le vette vaporose dell’anima.
I due amici si muovevano con la cautela degli equilibristi. Non volevano smarrire una stabilità raggiunta a fatica sul velo di brina, più impalpabile di quello di Maya, che ricopriva i rombi del camminamento di lavagna nera e allungava i suoi tentacoli sulle attrezzature e le costruzioni in plastica – le pedane arancioni, le torrette giallastre con i tettucci triangolari verdognoli, gli scivoli di un ruvido blu, le casette cubiche marroni come le celle di un alveare, le altalene color sangue, le file parallele di appigli violacei per arrampicare, i cavallucci a pois, gli aeroplanini-elefanti con grandi orecchie, le pantere rosa, gli uccelli dalle piume di cristallo montati su spirali di molle argentate. L’insieme di forme e colori era intensamente spirituale: senza però riuscire a nascondere una perturbante vena d’apprensione per qualcosa di allarmante in agguato nel fondo dell’Essere. Che, nel caso dei nostri eroi, avrebbe potuto aggredirli sotto forma di devastanti effetti psicofisici derivanti dall'ingente quantità di vodka ingerita durante la notte appena spirata.
Giunti in fondo al parco senza danni, i compari si fermarono sul limitare della pineta, che era stata attrezzata per ospitare i genitori dei bambini in smart working con poltroncine rivestite da tessuti a fiori di Aïssa Dione; il divano Ribes di Citterio, dalle imbottiture riempite di pannocchie; gli alberi-libreria di Sebastian Errazuriz.
«’Ste scarane, these chairs, fata roba, che stranezza! An sé mai vist na fornitura of this kind. E quel tavlàz? L’é un curiòus arzmòint… cam dit voialter, come dite voialtri… un aggeggio proprio da fuori di testa!». Il Custode si era avvicinato a quattro sedie Filla – con la seduta in frassino da cui le gambe posteriori si biforcavano come rami e due foglie a fare da schienale – accostate a un banco Ryoba, di Porro: tre assi di larghezza diversa, assemblate a secco, sulle quali sbocciava una lampada vintage a forma di cactus disegnata da François Chatain. I mobili sembravano nati all'improvviso, senza un ragionamento, simili a funghi bizzarri disegnati da un marmocchio. Come se i creatori di quei pezzi d'arredamento cercassero di sorprendere l'Uno che non sta al di là delle sue manifestazioni mondane, ma che esiste in esse – lo stesso intento, a ben vedere, degli utopistici architetti della città in miniatura progettata per lo svago dei suoi lillipuziani abitanti.
Il Maestro citò Kandinskij: «Le cose che incontriamo per la prima volta ci fanno una profonda impressione. Così sperimenta il mondo il bambino, per il quale ogni oggetto è nuovo. Vede la luce, ne è attratto, vuole afferrarla, si scotta le dita e inizia ad aver Paura e Rispetto per la Fiamma».
La faccia orrenda di Tim divenne radiosa. «Paura... sounds good».
«Un Asilo è perfetto, quando il Sole è ancora freddo e le lezioni non sono iniziate, per comprenderne la natura. La natura della Paura, intendo. In apparenza: vuoto, silenzioso, indifferente. Un cristallo. In realtà, nervoso, con mille voci sommesse, gravido di attesa. Terrorizzato, persino, dalla minaccia aleggiante, benché inespressa, di essere violentato».
«The same feeling, perhaps, dei Burdei Perdù (i Bambini Orfani dell'Asilo, N.d.R.) quando li guardo».
«Gli occhi sono martelli».