"Ok, ora ti dico tutto quello che ti devo dire ma ho bisogno che tu non mi interrompa come fai di solito.
Mi rimproveri sempre che non ricordo le cose importanti ma non è vero. Ricordo benissimo quando sei venuta da me la prima volta, ad esempio. Era un giorno di fine maggio.
Sì lo so, non ti ho riconosciuta subito. Ma dai, avevi cambiato fisionomia, lineamenti e perfino la voce. “Arthur, ciao, sai chi sono?” mi hai detto. No davvero, non ti ho proprio riconosciuta.
Ma poi ti ho guardata negli occhi, quegli stessi occhi belli di cinque anni prima e non c’è stato bisogno che mi dicessi il tuo nome.
Ricordi che ti ho detto che eri cresciuta? Beh, non era vero. Eri solo cambiata. Non credo siano stati cinque anni di crescita. Forse sono stati solo cinque anni di guerra. E in guerra non si cresce, si rimane sospesi e si cerca di sopravvivere. Così hai fatto tu. Davanti a me, quel giorno, c’era una bambina con cinque anni in più e le corde vocali lesionate.
Ricordo quante volte, sentendoti gridare dal piano di sopra, ho pensato: povera Emma. O, forse, più spesso, poveri Legrand. Ma la compassione andrebbe calibrata con attenzione, ora lo so. Tu non vuoi essere compatita, me lo hai detto chiaramente quel giorno. Gli sguardi della gente sono pesanti da sostenere tanto quanto il loro disagio. Ma io non ero a disagio, te lo giuro. Ero stupito da quella tenacia distribuita su quaranta chili scarsi. Ho capito dopo che eri nella fase più critica della malattia, la guarigione.
Quando la mente inizia a schiarirsi e ti guardi indietro.
E capisci.
Ma avevi dentro di te la voglia di ripartire. Non avevi solo una scatola di caramelle da inghiottire a ore ma anche un elenco di cose belle. E me le ricordo tutte.
La casa nuova. Quell’appartamento sulla Rive Gauche. Mi hai detto che quel monolocale assomigliava a te, “piccolo, un po’ consumato ma luminoso”.
Il profumo del caffè. Il lavoro in quel bistrot da finti intellettuali ti ha fatto sentire per la prima volta autonoma e ti ha fatto incontrare persone che sapevano a malapena il tuo nome. Perché diciamocelo, parlare con qualcuno che non sceglie le parole da dirti fa incredibilmente bene, vero?
La consistenza del terriccio. Hai speso dieci minuti buoni per spiegarmi come rinvasare una pianta. Ora credo che per te fosse un modo di prendersi cura di qualcuno dopo che, per anni, l’unica di cui tutti si sono occupati, abilmente o maldestramente, eri tu.
Quel giorno non l’ho capito.
E poi mi hai detto che una cosa in particolare aveva un ruolo primario nel tuo elenco. Ed era poi il motivo per cui eri venuta a trovarmi quel giorno. Una volta qualcuno, un medico o forse uno che passava per caso, ti ha detto di pensare ad un momento sereno, di fissarlo nella mente, di ricordare un dettaglio, uno solo di quel preciso istante e di tenerlo presente nelle situazioni più critiche. E quel dettaglio di quel momento era un profumo. Lo sentivi qui in giardino, in una giornata come questa. Ed era a quel profumo che tornavi con la mente quando dovevi tenere a bada i tuoi demoni. Non sapevi da dove arrivasse e lo hai chiesto a me. Forse perché a scuola ero più bravo di te.
Vedi Emma, le cose importanti me le ricordo. Sei stupita?
Incredibile come si possa ricominciare a vivere da cose diverse. Da un lavoro, da un hobby, da un taglio di capelli. Dal profumo di un fiore.
Sai, non te l’ho mai detto ma ho immaginato spesso quel piccolo appartamento sulla Rive Gauche e te intenta ad annaffiare le piante prima di andare al bistrot. E quando, alla fine, mi hai invitato, era esattamente così. Piccolo, un po’ consumato ma luminoso.
Adesso voglio dirti quanto siano belle le ore passate insieme. Quanto sia bello vederti ridere ma anche piangere. Quanto ti odio quando mi dici che non posso capire. Vorrei capire, vorrei che quelle voci entrassero nella mia di testa per lasciar riposare la tua.
Ma sei troppo bella, nessuno ti vorrebbe mai lasciare.
Non sei matta Emma, non più di me almeno, sei coraggiosa e te lo dico ora ma avrei dovuto dirtelo tempo fa. Voglio abbracciarti senza paura di farti male, voglio stringerti a me e dirti che no, non è compassione. È orgoglio, è rabbia, è rimpianto, è desiderio. Forse è amore. Forse. Non lo so.
E ora interrompimi Emma, forza, dimmi che posso ancora entrare nel tuo elenco delle cose belle.
Ma tu non mi interromperai.
E io, beh, io mi ricordo che è tardi e che devo andare a casa ad annaffiare le tue gardenie."