Se fosse sufficiente filosofare, le cose sarebbero più facili. Severino del resto non lo ignora. Ma il Nulla che egli affronta ha a che fare anche con Dio, temibile convitato.
Ed appunto la prima nota che in Severino si coglie è la paura. Il thauma appunto, che ci assale di fronte all’ignoranza e da cui subito si cerca riparo.
Egli l’annota con chiarezza: “Riprendendo uno spunto di Platone, Aristotile dice che gli uomini sono spinti a filosofare dalla meraviglia. Meraviglia che essi provano quando, di fronte agli accadimenti del mondo, ne ignorano la causa”.
Meraviglia? Che parola è mai questa?
In realtà il termine thauma “ha un significato molto più intenso [di meraviglia]: indica anche lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, orrendo, mostruoso. Se infatti non si conoscono le [loro] cause […] allora l’accadimento delle cose diventa la fonte di ogni terrore. E anche di ogni dolore”.
Da cosa nasce infatti il dolore? Nasce dal prendere atto che ogni cosa è soggetta al divenire, alla morte, questo terribile suono, a cui è necessario opporre almeno una piccola speranza.
Dobbiamo ad Eschilo un primo riparo. Eschilo che, per primo, ci mostra il sentiero dell’Errore su cui cammina la terra, destinata, a causa di questo, a un doloroso annientamento. Eschilo che ci mostra anche il suo personale rimedio: “Conoscendo le cause del divenire, l’imprevedibile diventa prevedibile” e quindi evitabile: conoscendo sfuggiremo al danno, alla perdita, talora alla morte.
Conoscere le cause di un evento vuol dire prevederne gli sviluppi, il decorso, possedere la verità, l’epistéme, il faro che illumina la via.
Per secoli il sentiero della terra sarà rischiarato dell’epistéme. Almeno fino a Schopenhauer e a Leopardi.
Ma “se Schopenhauer inaugura la consapevolezza che l’epistéme non può essere efficace rimedio contro il dolore del divenire, Leopardi non solo partecipa a tale inaugurazione, ma anticipa anche [il successivo] percorso”.
Nell’ultimo tratto di questo “sentiero della notte” cammina dunque il poeta di Recanati che, come Eschilo, decreta l’inevitabile fallimento dell’Occidente.
I rimedi suggeriti da entrambi sono però momentanei palliativi.
Per Eschilo è la conoscenza certa quella che consente di prevedere ed evitare il danno. Per Leopardi (all’opposto) è proprio l’epistéme a costituire il dolore. Dunque dal doppio orrore della visione (il responso irrevocabile), e nell’attesa dell’annientamento, il palliativo per Leopardi potrà essere solo l’illusione, la negazione della verità angosciosa: ossia la poesia, ultimo rifugio. L'epistéme per lui è la dominazione del nulla, che annienta l’ultima fase dell’Occidente, la cosiddetta civiltà della Tecnica, la cui essenza è la Ragione.
Quel che l’uomo del suo tempo non coglie è il carattere annientante della Ragione.
Leopardi è certo consapevole che la poesia è solo un rimedio temporaneo. Ma, segnato dagli dei, silenzioso e immenso come lo spazio che immagina, ben conosce il dolore che lo consuma. Ed è ad esso che oppone la grazia della sua poesia. Illusione e grandezza, per lui. Illusione soltanto, per chi poeta non è.
Due vie dunque, verità e illusione, che falliscono entrambe, lasciando esausti sul terreno i loro rimedi.
Come potremo allora proseguire? Avremo altri profeti? Disporremo di altre strade, che abbiano luci, questa volta, non transitorie? Non sappiamo forse da sempre che non è il dolore inflitto dalla realtà, per quanto orribile esso sia (perdita, divenire, impermanenza), a costituire il vero problema? Non sappiamo forse che il danno più grande viene dal desiderio e dai rimedi finora adottati?
Sì, lo sappiamo.
Per chi crede che si venga dal Nulla, e si torni al Nulla, il dolore massimo, e terribile, della scomparsa definitiva dovrebbe essere considerato un dato immutabile della realtà, una freccia che ti colpisce da fuori, scoccata dalla natura matrigna senza difesa alcuna che non sia il contenimento greco del tragico. Per chi crede questo, la faccenda dovrebbe finire qui e concludersi con l’accettazione sapienziale. Il ferito non colpirà nuovamente se stesso, da solo, con una seconda freccia: quella del desiderio vano.
Resterà da vedere il secondo errore: il nichilismo o l’idea errata che si venga dal Nulla e si torni nel Nulla. La filosofia lo ha combattuto, da Parmenide in poi. Oggi lo combatte anche la scienza. La fisica dell’ultimo secolo ha compiuto, in tale direzione, non pochi passi inattesi.
Ci restano allora, per il nostro futuro, non miseri ceri, ma fiamme luminose e possibili.