chissà se in me c’erano in nuce
i germi delle stronzate che avrei fatto
da adulto
in quella foto in bianco e nero
mia madre con gli occhiali da sole
in clinica
e io minuscolo tra le sue mani
gli occhi socchiusi e un ghigno serafico
mentre mio padre accordava la chitarra sul bordo del letto
fischiettando l’Uomo in frak.
a distanza di anni sono certo
che tra le caratteristiche in fase d’assunzione
non chiedano alle giovani infermiere
se abbiano i piedi piatti o no
o se tendano alle cadute con rovesciata
e quindi sarà stato certo un caso che quel giorno
Ilda Lucchesi scivolasse su un residuo
di acque rotte sul linoleum
rovinando sul pavimento con clangore di grancassa
tra vassoi e strumentazione medica.
fatto sta che spalancai gli occhi
tesi le orecchie come un piccolo lemure curioso
mentre mio padre concludeva la cantata
che si era fatta triste tra adieu, ricordi, sogni e un attimo d’amore
che mai più ritornerà (la-la-la-là / la-la-la-là)
ma
cadde la Lucchesi
smorzando con quell’exploit clownesco le mie lacrime
sensibili e affamate
regalandomi il gusto sconosciuto e dolceamaro
della tenerezza intrisa nel cinismo e nel curaro.
nessuno sa chi io sia
sotto gli ombrelli chiusi dei cipressi
né perché sorrida e pianga
sconosciuto
nel crocchio dei parenti di una vecchia ostetrica ottantenne
calata nella fossa in un mattino d’ottobre
tantissimi anni dopo.
la mia risatina come un carillon allegro
inzuppato di lacrime imbarazzate
sigilla il mio addio
e il mio grazie
la-la-la-là / la-la-la-là.