L'ultima stazione
Era finita la notte, e non era ancora mattina. Struggevano al caldo estivo le vecchie carrozze di una littorina, in sosta da tempo immemorabile, sui binari di servizio della piccola stazione, ormai completamente chiusa.
E' l'ultima stagione di fuoco, o della canicola, dal tuo addio, e tutto crepita all'intorno, anche la tua memoria, dagli inizi, incomprensibili.
Ora siamo di fronte a questa stazione di vetro e di petrolio, impiccati al patibolo di una facciata, di una pagina, della tua ultima lettera, quasi ingiallita dal pianto.
E fatichiamo a trovarne il conforto, anche a distanza di anni.
Tu, una madonna incorniciata dal riquadro della biglietteria, eri bella, ed era un sogno solo lo spiarti di sfuggita, dai vetri della stazione, oggi deserta, ma allora vero centro di ogni meraviglia e di ogni ispirazione. Per chi andava e tornava e per chi ripartiva per le destinazioni di ogni migliore prospettiva. Erano i sogni, erano le orme senza segreti, di ogni nuova, fresca iniziativa, per chi coglieva al volo, le offerte di lavoro d'oltre confine.
Erano i laici voti e le preghiere che si innalzavano al cielo, in cerca di fortuna. Ed erano gli albori di una vera esplosione economica, la garanzia di una sicura retribuzione. Oggi quei tempi sono così lontani, sono solo la sbiadita memoria o il ricordo di una generazione, ormai del tutto scomparsa.
Adesso i muti muri ne istoriano l'avvenuta transumanza, nella stazione arsa.
Da questo meriggio, più caldo di sole che di speranza, ne chiudesti una pagina, ma non ne riapristi una consecutiva.
E già il sentimento di quel ricordo, che è alla deriva, non è che una ingiallita diapositiva.
Eri tu, ed ero io, che ci tenevamo per mano, due semplici ragazzi stagliati nel tondo di luna.
Ed io non sapevo, ma tu lo presentivi, che da lì a poco, sarei dovuto partire, come tanti altri, prima di me, da quella stazione, da quel carcere a cielo aperto, di un paese, che non aveva altre vie di uscita, se non l'emigrazione.
Tu lo avevi già intuito il drammatico epilogo di un'infausta realizzazione, perché, a decine li avevi visti partire, e fotografati, nella memoria, attraverso questo atrio di stazione, con in mano un biglietto, e con il cuore in gola, per la trepidazione del distacco, lasciandosi alle spalle l'amata abitazione.
Fumavano i treni, e spargevano tutt'intorno, il lacerante acre odore delle turbine a vapore, che gridavano, insieme al mio dolore, costretto a dimenticarti subito, appena dopo averti rivolto la mia timida, impacciata dichiarazione.
Più che dolore disperazione, lacerante disperazione per doverti abbandonare, agli albori di una vera e propria deportazione.
Questo nembo di tempo e questo fumo erano i segnali di una feroce deprivazione, li sentivi gridare all'unisono dal fondo della stazione.
Oggi ritorno qui, dopo quasi dieci lustri di vita, passata nelle città straniere, sotto il rombo delle ciminiere.
E piego il capo tentando di udire, flebile, ancora la tua voce che mi dice:
«aspettami, e scrivimi... io ti aspetterò, qui, per sempre».
Ma non fu così, né, certo, lo poté essere, perché la vita incombe, implacabile più di una reale, improvvisa tempesta o ecatombe.
Solo le pareti tremanti della minuscola stazione ne furono le sole testimoni viventi, ma transitorie, di quella inesorabile, implacabile frustrazione.
Qui ho osato ricordarmene, oggi, così come, anche, subito e completamente ho voluto dimenticarmene. Troppo acuto, e penoso, lo strascico dei rimpianti, che si sedimentava sulla lunga scia dei ricordi, e mi soffocava, come una condanna capitale, una morsa alla gola, inesprimibile.
Non era notte e non era ancora mattina. Struggevano le carrozze abbandonate, da tempo immemorabile, sui binari della piccola stazione, completamente chiusa. L'ultima stagione di fuoco, dal tuo addio, tutto crepita all'intorno, anche la tua memoria, dagli inizi incomprensibili.
Siamo di fronte a questa stazione di vetro e di petrolio, impiccati al patibolo di una facciata, di una sola pagina, della tua ultima lettera, ormai del tutto ingiallita, dal tempo e dal pianto. Già il sentimento di quel ricordo, che è alla deriva, non è che una ingiallita diapositiva: tu ed io che ci tenevamo per mano, due ragazzi illuminati soltanto dai flebili raggi di luna.
Ed io non lo sapevo, ma tu già lo presentivi, che sarei dovuto partire, di lì a poco, da quella stazione, da quel carcere a cielo aperto, di un paese, che non aveva altre vie di uscita, se non l'emigrazione.