Hurdy Gurdy Man risuonava nello stomaco della campagna, sospeso nel buio, sperduto.
In lontananza, dalla notte emersero due fari gialli come tenui bagliori che boccheggiavano nella nebbia.
Il suono della canzone cresceva, si ingrossava accompagnato dallo scrocchio degli pneumatici di una Fiat Panda rossa che pestavano una strada butterata di ghiaia e polvere. Era una strada ammaccata, ferita, a pezzi. Sola. La Panda sembrava non avere pietà e continuava a colpirla e a masticarla. Procedeva spedita mentre affondava colpi bruschi e frenetici dimenandosi senza darle tregua.
All’improvviso, uno scoppio sordo nelle tenebre: la Panda sbandò con violenza, le ruote stridettero e la strada venne scorticata.
Infine, di schianto, il silenzio. Solo il ticchettio del motore che si dileguava e smarriva nell’oscurità.
Si udì un grido.
In quell’abisso, il solo punto di riferimento era il grosso teschio fluorescente della luna che affiorava leggero dal cielo sfigurato da un’enorme nube grigia.
Micol uscì in strada. Rabbrividì, l’umidità le entrò sin dentro le ossa. Prese una torcia elettrica dal baule là dove se ne stava appisolata la sua Ibanez Roadstar II. L’accese e strappò brevemente uno scorcio di campagna alla nebbia. A passi decisi si rivolse al cofano, fece il gesto di alzarlo e uno sbuffo maleodorante avvampò appannandole gli occhiali.
«Ci capissi qualcosa… » sospirò, con la torcia che illuminava i componenti del motore.
Rimase qualche istante con la testa immersa nel cofano, come ripetendo una procedura di cui era totalmente estranea. Lo richiuse con rabbia, tossì e si appoggiò sconsolata contro la fiancata dell’auto. Con le mani ormai intirizzite dal freddo cercò quel pacchetto di sigarette che aveva nelle tasche del suo grosso giaccone nero. Vi si tuffò dentro e lo trovò: Chesterfield. Un altro colpo di tosse la scosse, si raschiò la gola e con indifferenza si portò una sigaretta tra le labbra mentre, facendo dondolare la torcia, osservava la campagna muta e quel grosso fossato sull’altro lato della corsia.
Era caduta a picco in un’oscurità senza fondo, con lo scheletrico bagliore della torcia come unica guida, intanto che la nebbia le imperlava il volto, increspava i capelli e infradiciava gli abiti. La strada era stretta e scricchiolava sotto i suoi passi, a lato saliva il lezzo del fossato e il plock melmoso di alcuni animaletti che, terrorizzati, si tuffavano nelle sue gelide e fetidi acque. Ora anche i lumicini della Panda venivano inghiottiti dalle tenebre e il suo viaggio sembrava sempre più simile a una discesa verso gli inferi.
Passavano i minuti, ma non vi era traccia della presenza umana. Solo un’immensa desolazione circondava ogni dove sino a quando, in lontananza, come se provenisse da un’altra dimensione del creato, si udì la musichetta di un carillon.
Era What the Hell is a Choco Taco. In quell’oblio dimenticato da Dio quel suono lento e distorto aveva un esito inquietante. L’atmosfera diventò irreale, sospesa tra l’incubo e la commedia. Lentamente il suono si avvicinò e prima i fanali poi il cofano di un furgoncino, bucarono la densa parete della nebbia.
«Un furgone dei gelati!?» esclamò Micol, come se avesse visto la testa di un Minotauro.
Al di là del parabrezza si intravedeva il conducente che, con delicatezza, fermò il mezzo sino ad affiancarla.
Il motivetto si spense, il conducente si allungò verso la portiera a lato del passeggero e abbassò il finestrino. Un faccione allegro, con un grosso paio di occhiali azzurri a incorniciarlo, spuntò fuori: era un ragazzo nel pieno dell’adolescenza.
«Buonasera signorina» disse con un tono amichevole e rassicurante «Poco fa ho visto la tua auto, sono arrivato in ritardo, credo. Scusami, me la sono presa comoda.» Ridacchiò, illuminando un volto di una bruttezza magnetica, dopodiché aprì lo sportello. «Coraggio» ammiccò.
«Grazie, ma sto bene così» ruppe l’indecisione Micol.
Il ragazzo parve incredulo «In che senso? Qui non c’è niente per te, se non vieni rischi di smarriti.» Fece un altro tenero sorriso e prima che Micol potesse ribattere proseguì.
«Non ho intenzione di farti del male» disse. «Ti prego, c’è poco tempo. Potrebbe trovarti.»