Le vetrate della Fortezza Bastiani rilucevano nell’aria limpida del pomeriggio avanzato: il lounge bar in riva al mare era una palla di fuoco che faceva concorrenza al Sole. Vista da lontano, l’immagine risultava tagliata in due piani orizzontali e simmetrici, alla Rothko: sopra, un chiarore aranciato esaltava il profilo della struttura; sotto, una tenebra blu lo capovolgeva in acqua.
Il ritrovo preferito dal Maestro e dai suoi compagni era stato creato, non senza polemiche, in una struttura millenaria. Nel corso del tempo era stato oggetto di grandi elogi, senza tuttavia restare immune da critiche e scherno. Fra gli ariminensi era noto come “el fér su l’aròla”, “il ferro da stiro a scaldare sul caminetto”. Nickname non del tutto fuori luogo per quella enorme massa di pietra bianca. Dotata di una grande terrazza, da cui si godeva la vista dell'intera città, era caratterizzata da un imponente colonnato al centro, di forma ellittica: all’ingresso si accedeva tramite una scalinata monumentale, a fianco di un altare su cui era tenuta viva giorno e notte la fiamma di una torcia, sorvegliata da due energumeni – alternativamente dedicati alla funzione di buttadentro e buttafuori. Lì sotto erano sepolti i resti di clienti anonimi che nel corso dei secoli avevano perso la vita per un eccesso di stravizi. Piaceva molto ai giapponesi, che la fotografavano in modo spasmodico, attratti dalla sua estetica bizzarra, frutto della fusione fra varie correnti dell’ellenismo, del postmodernismo, del barocco e dell’arte orientale.
Il Roc e il JubJub erano accovacciati davanti ai battenti serrati del locale, che aveva qualcosa di febbrile: «le statue di quel tempio pagano» aveva detto Giorgio Manganelli, fra un bicchierone di assenzio malese on the rocks e l'altro «danno la curiosa e un po’ sinistra impressione di essere in un pantheon deforme, di dèmoni che non hanno vinto il concorso per diventare dei».
Darne un quadro compiuto era quasi impossibile. Per restare alla facciata: al centro sedeva Federico Fellini, che aveva come custodi, ai suoi fianchi, Corto Maltese e Philo Vance. A destra, la dea Kalì sorrideva a Eiichirō Oda e allo Scrollalanza. Dal lato opposto, sotto una cupola a vetri, si poteva ammirare Pico della Mirandola vigilare su Jagger e Richards, Pablo Picasso e Calvino – difficile dire quale dei due: il Maestro propendeva per lo Scrittore italiano, il Capitano per il riformatore svizzero. Helen e Daisy, peraltro, sostenevano che si trattasse dello stilista Klein. Il Pescivendolo era orientato per la rappresentazione di una Trimurti che, misteriosamente, si manifestava in tutte e tre le forme.
Il colonnato centrale era già addobbato per la Festa degli Elefanti, che si sarebbe svolta il giorno successivo, in onore del santo protettore di Ariminum, Quentin Tarantino. Era una festività per gli ariminensi ancora più importante dell’imminente Capodanno. Celebrava l’elefante cremisi danzante su due zampe sacro a Sìva, suo divino auriga. Simboleggiava la ricerca di un equilibrio fra le due parti dell’anima: la fonte dell’intelligenza emotiva e sociale (thymoeidès, in dialetto), che si dirige verso il mondo dello spirito; l’altra, la sede delle pulsioni sessuali e distruttive (epithymetikòn), che si dirige verso il mondo sensibile. Tutta Ariminum stava vivendo la vigilia secondo le prescrizioni rituali, che prevedevano dibattiti sui temi più ostici e complessi, accompagnati da ampie libagioni e orge sfrenate. Quentin Tarantino (adorato con il nome di San Quintino) avrebbe concesso ai veri credenti di trovare l’armonia necessaria a non perdere il senno in deliri metafisici, da un lato, a non soccombere per gli abusi di cibo, alcolici, sesso e droghe, dall’altro.
I due antichi compagni cercavano di immergersi in quell’atmosfera di attesa, che, vissuta al cospetto della Fortezza Bastiani, accentuava la sensazione di trovarsi in un luogo sacro, dominato da un senso di cosmica giustizia: era un sentimento pacificante – fugava la paura primordiale che il Bianco potesse inghiottire il Rosso, lo Yin lo Yang, il Maschile il Femminile. O viceversa. Certo, i ventisette grammi di acido lisergico forniti loro da Earnest aiutavano.
La pressione si allentava, sostituita da un piacevole stato di delirio, dal sentirsi parte di un fantasmagorico gioco cromatico. I profumi, i colori e i suoni erano echi che si rispondevano l’un l’altro. I due percepivano che l’Architetto della Fortezza mirava a far perdere la vista nel disegno della struttura: condizione ideale in cui uno sguardo può davvero incontrare la propria forma. Il Roc e il JubJub erano Aldous Huxley e Cary Grant, sciamani pronti a essere invasi dall’abbagliante candore divino emergente sotto lo strato di realtà sporca che lo ricopriva, deformandolo con fluttuazioni e distorsioni. Mura gonfie di infiorescenze erano sul punto di schiudersi in corolle di loto senza nascita né morte, senza caduta né rinascita, né reali né irreali, né esistenti né inesistenti, né false né vere. Era tutto un po’ confuso: ma, qua e là, piccoli fiori blu stavano già sbocciando.
Fu il JubJub a rompere l’incantesimo: «Ci sono più cose tra cielo e terra, fratello, di quante ne sogni la tua filosofia».
«Tipo una fila di cabine mobili da spiaggia azzurrine?». Il Roc si aggiustò i Ray-Ban. Li indossava per difendere gli occhi dai riverberi della luce, che contribuivano al peggioramento delle sue emicranie.
«Quanto sei prosaico».
«Hai qualcosa
contro la prosa?» verseggiò lì per lì il Roc. Un maldestro tentativo di canzonare l’amico poeta.
Il JubJub vide nella battuta del compagno un’opportunità. Era la Bellezza il metaforico ippocampo cui si riferiva la sera prima: stava volando via dal mondo e il Roc, il solo che avrebbe potuto trattenerla, aveva dimenticato la missione per adempiere la quale era tornato ad Ariminum. Stava anche lui precipitando in quella banalità esistenziale che non è una possibile specificazione del Male, come crede chi parla della banalità del Male: la banalità è il Male stesso – quell’infezione batterica, la vera inestirpabile pandemia del nostro tempo, che rende l'individuo un ingranaggio del sistema, un esecutore degli ordini dettati dagli algoritmi di Google, dagli Scrittori mainstream, dai guru del politicamente corretto, dalle isteriche sacerdotesse del femminismo più becero e dai celuduristi impotenti ma fanatici assertori di un maschilismo putiniano. Una non persona che ha preferito scambiare la libertà primigenia per il piatto di lenticchie della semplicità, della facilità, dell’essere uguale agli altri. Il Pescivendolo ne aveva colto bene la pericolosità quando un giorno aveva detto: «la banalità non è mai banale».
Il JubJub decise dunque di affrontare la questione cercando un modo per scuotere il Roc dal torpore: scioccandolo, se necessario. E lo trovò.
«Per dimostrarti la mia buona fede, essere chiaro e non lasciare adito a dubbi, questa volta non parlerò in rima, non ti racconterò una storia e neppure canterò una canzone. Perché la prosa non è la semplice espressione di parole slegate da schemi metrici o da rime. No, la prosa del mondo è la sua volgare bruttezza».
«Cioè?». Il Roc era sbalordito. Il JubJub, dunque, sapeva anche tenere una normale conversazione?
«La bruttezza è l’insieme dei fattori esterni che limitano la libertà e l’indipendenza del singolo ostacolandone l’espressione dell’identità originale. L’ignoranza diffusa, profonda, feroce e pretenziosa, l’arroganza della stupidità, l’invidia delle persone insulse verso chi è migliore di loro, l’odio per tutto ciò che è diverso o non conosciuto, la superficialità delle mode, gli scopi di coloro che riducono il singolo individuo a mezzo per raggiungere i loro fini: tutto questo è prosa. Il mondo della prosa è un mondo di chiacchiere dove l’individuo finisce per essere annullato».
«Da cui la Bellezza ci salverà, giusto? Questa è un po’ stantia».
«Ma vera, se per salvezza non si intende un superamento definitivo della bruttezza del mondo, magari attraverso la supina accettazione di un canone prestabilito. La Bellezza non è mai il known degli ariminensi, il “già saputo”, non si lascia ricondurre a uno stato cristallizzato di fissità».
«Ne abbiamo già parlato qualche sera fa con Earnest e Jay, mi pare». Dei suoi ricordi il Roc ormai si fidava quanto dei propri Wayne Hays, il protagonista anziano e malato di Alzheimer della Terza Stagione di True Detective. O il Poe di Altered Carbon (Seconda Stagione) – se la memoria non m’inganna.
«Dicevamo che la Bellezza ci fa scoprire una Verità altrimenti nascosta dalla prosaica volgarità del reale, nel momento in cui ri-vela, pone un nuovo velo, una nuova soglia, una nuova domanda che prima di quella scoperta non saremmo stati in grado di porci. Per rispondere alla quale è necessario il confronto con altri punti di vista. Perciò la Bellezza è una tensione partecipata, una fiamma condivisa».
«Come l’amore?».
«Sì, incontrare la Bellezza è come innamorarsi. Lo insegnava Platone: amare significa desiderare la Bellezza, che, lo sapevano i suoi allievi Plotino e Petrarca, è sempre un segno di presenza angelica».
«Quindi anche degli angeli biblici portatori di morte, o i distruttori apocalittici contro cui combatte Shinji Ikari in Neon Genesis Evangelion (i due uccelli erano appassionatissimi di gekìga, manga e anime)… Ein jeder Engel ist schrecklich, dicono gli ariminensi, ogni angelo è tremendo».
Il JubJub considerò chiusa la discussione su prosa e poesia. Il Roc non lo stava prendendo sul serio. Sembrava non comprendere che le cefalee di cui soffriva erano dovute al dilagare della bruttezza nelle forme più deteriori: dalla convenzionalità dei trend all’insignificanza della coolness passando per la volgarità televisiva e la trivialità del carino. Le loro terribili ombre stavano occupando le menti degli uomini. Scorrazzando all’interno delle quali provocavano i danni di un rinoceronte in cristalleria. Ed era la Bellezza a uscirne a pezzi: quella Verità chiara, di per sé evidente, contenuta anche negli oggetti più comuni, frantumata dalla ridondanza degli orpelli inutili, delle citazioni gratuite, delle stranezze che attirano l’attenzione degli addicted a Instagram o YouTube.
La Bellezza ovvero, ancora una volta, l’Amore. Che Tiziano qualificò in un celebre dipinto come Sacro, contrapposto a quello Profano. Con gli occhi della mente, il JubJub ripercorse i tratti di una copia perfetta esposta in una sala del Grand Hotel. Al centro della rappresentazione c’è una fontana-sarcofago. A sinistra, una signora riccamente vestita; a destra, una seconda donna, forse una gemella, che si sta spogliando. Propriamente si sta sve-lando, allontanando dal proprio corpo l’ultimo velo rosso che la copriva. Ed è quest’ultima a simboleggiare l’Amor Sacro, la Bellezza come Verità nuda. La prima, con i suoi vestiti sfarzosi e i guanti, è il ritratto dell’Amor Profano, ovvero dell’Artificioso e dell’Artificiale che impedisce di vedere la Verità della persona umana.
Quasi scaturite dalla nebbia dei suoi pensieri, davanti ai due amici sfilarono un gruppo di ragazze. Liceali in vacanza dai capelli lunghi e increspati come criniere, incedevano su plateau vertiginosi e dai tacchi trasparenti. Indossavano abiti tubolari avvolgenti, mini da una parte e con una lunga coda dall’altra. Sopra, impermeabili in PVC. Statuarie, in crescendo quando le spalle s’ingigantivano a dismisura sino a elevarle a mostruose guerriere. Sembravano prepararsi allo scontro con una tribù proveniente dal porto: nomadi ed esploratori della natura selvaggia con parka e blouson, poncho e anorak, mimetiche e sahariane. Cappucci alzati come scudi a difesa delle parti più deboli di un’umanità pretecnologica.
Le liceali esibivano invece corpi-macchina. Protesi, impianti bionici, connessioni in Cloud. Idee di persona aperte a forme complesse di ibridazione: antropodecentramento, cyborghizzazione, autotrascendimento – postumanesimo.
Dalle segrete del vecchio Castello malatestiano giungevano canti sacri in sottofondo: l’atmosfera si fece cupa, medievale, apocalittica: «Il brutto è il Brutto, e il Brutto è il brutto» erano le parole salmodiate da quei fantasmi gregoriani.
Di fronte a tutto questo, anche la magia degli Artisti Dannati sembrava impotente. Non spettava al JubJub sostituirli, ma poteva almeno cercare di contrastare il processo entropico con le armi che aveva a disposizione: il mito, la poesia, il canto. Si ritirò in se stesso e si dedicò a rimuginare su una canzone a cui lavorava da un po’, dopo avere studiato la metafisica di Giorgio de Chirico, Italo Calvino, Roger Waters, Robert Graves e molti altri.
Quando fu pronto, si alzò in piedi, aprì le ali e gorgheggiò:
«Tornavamo, fendendo con i rostri
acque nere e squame di mostri,
nel cupo mugghio che si levava come
dalla tromba-conchiglia d’un tritone;
e i suoni, per fermarsi nel riposo
d’un’eco, invece di vagar nel sempre ansioso
subconscio del Roc, dovevano approdare
al molo d’una città a picco sul mare.
Arrivammo ad Ariminum, bianca, dietro la pineta,
come la Iolco da cui era salpata la compagnia lieta
degli Argonauti – le scale della Fortezza che scendevano
alla spiaggia sabbiosa e capretti che imbevevano
il marmo delle statue pachidermiche a Sìva sacre
del loro sangue cremisi, dal sapore acre.
Con la casa seminascosta nella foresta sognante
degli ombrelloni sulla Spiaggia abbagliante,
difensori di centinaia di letti d’ospedale
dispiegati sulla battigia ancestrale,
il Custode ebbe una visione
o una momentanea perdita di ragione:
l’edificio, trasformatosi in Chimera,
esibiva la sua anima vera.
Il soffitto diventava la testa,
la polvere la mente che la infesta,
le porte gli orifizi e lo sfintere,
le finestre occhi che non sanno vedere,
il camino un’erezione immonda,
la cucina la gola, profonda,
le colonne lo scheletro danzante,
le travi il cervello pulsante,
i gradini rotti delle scale i pensieri ansiosi,
la camera di mamma e papà i desideri incestuosi.
In quel momento, esatto,
capì che non abbiamo una casa:
noi siamo la nostra casa».