Jan, il mercenario straniero, giunse all’osteria un giorno di novembre tutto bagnato della pioggia che infuriava fuori sul mare. Non dimenticherò mai l’atmosfera in cui raccontò la sua storia: il rumore dei cucchiai di legno sulle ciotole di zuppa di pesce che insozzavano la taverna di odori e vapori caldi, le bocche degli avventori affamati che vociferavano mentre masticavano e una musica di violino che veniva dal palchetto. Ne dimenticherò la sua voce, roca e bollente come lava, potente come il vento che si sentiva sbattere nel nostro povero tetto di legno e paglia; e allo stesso tempo lontana come quella di chi abbia assistito a un prodigio. Jan scrutò negli occhi quelli che stavano davanti a lui, sembrava che gli leggesse nel pensiero e nel cuore, decidendo se erano degni del suo racconto. Poi abbassò la testa e guardò la tavola di betulla, una ciocca di capelli grigi come il cielo di quella sera d’autunno gli coprì la fronte. Tutti avevano paura di lui, ma ne erano stranamente attratti come da uno scrigno che contenga arcani segreti; quando cominciò a parlare una forma della lingua arcaica, come vernacolare, che avevo sentito forse dal mio bisnonno.
— Era già molto tempo che assediavamo la città di Mavit-Ostend: sinceramente non ricordo quanto. Poi un bel giorno, c’era il sole, una nostra pattuglia individuò l’uscita di un tunnel segreto attraverso cui gli abitanti mantenevano un costante flusso di approvvigionamento con l’esterno. Ecco perché avevamo aspettato anni e non avevano mai esaurito le scorte. Ci riversammo nel cunicolo, uno ad uno in fila indiana per quanto era stretto, e riuscimmo a penetrare all’interno della città. Finalmente, gli abitanti erano alla nostra mercé: li odiavamo i Mavitiani, per tutto quello che ci avevano fatto.
Ricordo che ebbi un sussulto mentre strofinavo un bicchierone: dalle notizie si sapeva che i soldati del re avevano preso la città di Mavit-Ostend, alle foci del fiume d’argento, ma si diceva anche che a prenderla erano stati dei briganti, un’orda di ribelli scellerati, disperati e opportunisti, mascalzoni privi di alcun principio. Ma ripresi ad ascoltare Jan, incantato come tutti dal suo mistero.
— Eravamo pronti. Ora potevamo soddisfare tutti i nostri impulsi, i desideri più selvaggi e malvagi che in tempo di pace non avremmo nemmeno pensato! Ma quello che trovammo ci lasciò senza parole. Dalla piazza della città, dove il tunnel sbucava, ci fissavano una marea di occhi spenti e bianchi, corpi segaligni di vecchietti. Cumuli di cadaveri giacevano sparsi, senza che nessuno se ne curasse, e dalle case, dal municipio, dalle taverne e dagli edifici pubblici, solo questi occhi di vecchi canuti che si reggevano a malapena in piedi e sembravano che stessero per essere inceneriti dai dardi solari. Anche noi ci guardammo, accorgendoci che anche i nostri capelli erano ormai grigi, le nostre membra molto più deboli. “E le nostre mogli? I nostri figli?” pensammo. Ci precipitammo fuori, indifferenti all’improvviso alla gloria e all’avidità, al piacere e alla baldoria; chi di qua e chi di là, ognuno verso la propria casa. L’intero esercito si sfaldò in poche ore. Ora io parlo per me, sto viaggiando da giorni in direzione del mio paese, dove spero di trovare mia moglie e i miei due figli. Ma strane cose ho scoperto lungo il tragitto, sempre più strane: le spade sono cadute in disuso seppure non siano scomparse, e sempre più utilizzati sono i moschetti, ai miei tempi circondati da un’aura di sacralità e timore. Anche la moda è cambiata, i vestiti sono più lunghi e pesanti, come se facesse più freddo e il mondo fosse diventato più grande e noi fossimo più piccoli. La gente si comporta diversamente, a volte fatico a comprendere le parole che mi sono rivolte – il mondo pare essere cambiato. Sto tornando a casa, ma ho paura che non troverò più ciò che cerco. Ma pur devo andare per vedere coi miei occhi, perché non può essere vero il sospetto che mi tormenta le notti che passo in ostelli e locande, aumentando man mano che mi avvicino! E se mi avranno tolto ciò che era mio, ooh, sapranno che Jan, l’ascia insanguinata, sa arrabbiarsi ancora. Faranno la fine dei Mavitiani, cui abbiamo posto fine definitivamente alle loro sofferenze, proveretti.
Ricordo che Jan disse queste ultime parole con un lampo sinistro di luce nello sguardo, un’ironia che mi fece correre un brivido freddo lungo la schiena.