La coscienza del Roc era informe e deserta e le tenebre ne ricoprivano l’abisso.
Il Logos aleggiava su quelle acque agitate.
Le parole si sovrapponevano, si rincorrevano, si perdevano e si ritrovavano. Intuì che quel coro non era formato da angeli, messaggeri, rappresentanti o informatori, ma da parti integranti dell’Essere Supremo, il Monarca delle potenze e delle forze.
Si sbagliava. La voce della Natura, del Demiurgo, dello Spirito Divino? No. Era Huginn. Il Roc non lo sopportava quando parlava troppo. Specie se soffriva dell’emicrania che gli avrebbe potuto procurare un martello pneumatico perforando il cervello.
Prima che la sua coscienza avesse un blackout, il JubJub intonava uno stornello. Non si era interrotto, a quanto pareva. È come il tordo, pensò il Roc, che canta dal tramonto all’alba. Un poema azteco dice che l’amicizia è come il fiore profumato, la piuma di un airone, la canzone di un uccello. Il JubJub gli era amico fin dall’infanzia, quella canzone era lunga una vita. Adesso il canto si era trasformato in una litania dal significato ermetico, forse teosofico, come quello della Serie di Fibonacci o del Teorema di Gödel: «Revolution number five, revolution number five, revolution number five…».
«Piantala di jubjubbare come un Ewok! È nine, non five!» urlò, agitandosi nel suo Nirvana alcolico.
Incredibile a dirsi, l’altro si zittì.
L’interruzione portò un sollievo relativo: il martello pneumatico proseguiva imperterrito le trivellazioni al di sotto della corona di spine che trafiggeva la corteccia cerebrale. Lampi neri, cremisi, violetti apparvero danzando un ballo selvaggio: il saltare frenetico di una hag ebraica, l’estatico ruotare di una congregazione di dervisci – se non una di quelle trance dance, stimolata dall’ecstasy e animata da Earnest nelle discoteche di Ariminum al grido di: «La possessione è spossessione!». O, più drasticamente, quando il deejay proponeva la versione trap di Pictures at an exhibition: «La morte è vita, raga!».
La schiera di luci si racchiuse al centro roteando su se stessa nell’attesa di un nuovo Big Bang. Rimase sospesa in un interstizio spaziotemporale compreso fra qualche miliardo di anni luce e un trilionesimo di secondo.
Poi l’equilibrio s’infranse. Innumerevoli molecole di Rna esplosero, sparando frammenti mnestici impazziti dappertutto. Balenii abbacinanti guizzarono fra neurone e neurone, connettendo astrociti e cellule gliali: scintille che si sparpagliarono in ogni angolo della mente, dove avrebbero dato vita alle proprie creazioni – uomini, elefanti, laghi, fiumi, mari, alghe, piante velenose, pietre, donne, Vampiri.
Il Sole era sceso nella fossa che si era scavato in fondo all’orizzonte. Nel buio si udivano urla, schiamazzi, grida di “Lunga vita al Capitano!” in avvicinamento.
«Cos’è questo fracasso? Di nuovo i Pirati?» si lamentò il Roc con la voce impastata, emergendo dallo stato cadaverico di sonno letargico in cui versava. Questa volta aveva colto nel segno. La Ciurma stava portando in trionfo lungo la spiaggia il comandante da ore e sembrava intenzionata a proseguire per tutta la notte.
«Vista la Mappa,
gioiosa è la truppa.
Gli elogi della Ciurma per il Capitano
al cielo così salgono immantinente:
“A quanta leggiadria egli è arriso!
La sua solennità, poi, ha un che d’arcano:
si capisce quanto è sapiente,
non appena gli si guarda il viso!”» rispose il JubJub.
A pochi metri da lui il Capitano fu lanciato in aria dagli uomini che poi lo ripresero al volo: la sua faccia gli apparve ancora una volta come una massa gigantesca, valutabile in centinaia di milioni, se non miliardi di masse solari; un mostro rotante su se stesso nell’atto di divorare un’immane quantità di gas, polvere e stelle che si sbriciolavano, spiralizzando verso il centro.
Il Roc, dolorante, volò via, verso l’Asilo.
L’uccello della notte aveva spiegato le ali su Ariminum, per deporre l’uovo argenteo della Luna nel grembo dell’oscurità da lui stesso generata. Puntini pulciniformi si facevano avanti, curiosi di vedere se il guscio si sarebbe aperto mostrando la sorpresa nascosta all’interno. Il loro sfavillio tremolante e pauroso andava delimitando l’orlo del caos spalancato al di sotto; lì si arrestava. Uno, più coraggioso degli altri, si spinse un po’ più avanti. Scivolò giù, quasi scagliato a capofitto come il Satana fiammeggiante precipitato dal cielo per volontà di quel Dio onnipotente che aveva sfidato. Lui però fu più fortunato: senza alcuna infame disfatta e condanna a dimorare nell’eterno fuoco penitenziale, s’infilò quatto quatto nella cucina dell’Asilo passando per un lucernario, come per imbucarsi in un party cui non era stato invitato e bere fino allo sfinimento.
Ma la festa era finita. L’Asilo era vuoto. Nel locale tutto taceva: la lavastoviglie che riceveva ordini di programmazione da cuochi e inservienti attraverso Amazon Alexa, per passare quel che restava del giorno a spettegolare con gli altri elettrodomestici, aveva esaurito la scorta di gossip; i continui battibecchi che scandivano l’amore litigarello a colpi di WhatsApp fra il robot aspirapolvere e la lavatrice smart si erano interrotti; era silenzioso persino il forno Dialogo di Miele, che voleva sempre sapere cosa s’intendeva cucinare, in modo da parlarne, tramite una rete di sensori, con i cibi chiusi in dispensa – dove anche bicchieri, piatti, coltelli e forchette erano stati riposti con cura, pronti a prendere vita al richiamo di un comando vocale come nella versione disneyana de La bella e la bestia.
La Spoon River tecnologica abitata da elettro-zombi digitali era entrata in pausa per rispettare un coprifuoco notturno – una tregua dal pandemonio di chiacchiere algoritmiche prodotte da Milton, l’Intelligenza Artificiale attraverso cui il Piccolo Ed gestiva l’edificio. Ne era particolarmente orgoglioso: «Milton è una mente che non può essere cambiata da un luogo o dal Tempo» amava ripetere.
Solo la debole luccicanza di un faretto all’interno dell’immenso frigorifero – un continente ghiacciato che oltre quel pallido sfolgorio si estendeva oscuro e selvaggio – si diffondeva con un ronzio dal vetro trasparentissimo racchiuso da una cornice di lava. Con il dining table Unessential Night abbinato, conferiva all’ambiente un aspetto da salotto zen, coerente con la serra a portata di mano di chi spignattava con il wok Next 125 by Schuller: una piramide dove ogni cassetto era un ecosistema di coltivazione per piante aromatiche, frutta e verdura, con tanto di impianto di irrigazione e led a basso consumo.
Quella luce rarefatta però non andava oltre la zona cottura. Non scalfiva nemmeno l’area del diedro formato dal tavolo e dalla parete color terra cui era appoggiato. Qui, nella penombra, erano disposti vasi, bottiglie, caraffe, recipienti di ogni tipo, fra cui alcune scatole di sardine vuote.
Ma era l’esile e monumentale presenza del gruppo di stoviglie dall’accentuata verticalità del formato, a fianco di una lampada a petrolio con un tubo di vetro nero inchiostro, che s’imponeva all’attenzione per una strana sorta di austera energia. Secondo una leggenda metropolitana ariminense, il Koinonía Gynaikôn, il bordello di Earnest, capolavoro dell’architetto canadese Frank Gehry e Mecca dei peccatori di mezzo mondo, sarebbe stato ispirato da quell’insieme di vasellame e bottiglie che ogni sera veniva ricomposto nella Cucina dell’Asilo: la distribuzione delle masse sarebbe stata identica. E anche la cromia dell’architettura avrebbe evidenziato questa discendenza stretta:
la marmitta parallelepipeda, in ceramica rosa chiaro, al centro del gruppo, avrebbe trovato una corrispondenza nel corpo originale dell’edificio in legno, a due piani. A quello nobile risiedeva Earnest, sotto era situato un ampio tinello: qui, dietro un banco da merciaiuola, sedeva ad accogliere i clienti una Gorgone dalla criniera un tempo serpentina, ridotta a una parrucca di stoppa rossastra, con il mozzicone perennemente acceso in bocca. Nessuno ne conosceva il vero nome, per tutti era “la signorina Caronte”;
la lattiera cilindrica, azzurra, liscia, un po’ rigonfia alla base e sul collo, avrebbe ispirato lo strato esterno di lamiera metallica ondulata con cui l’architetto aveva rivestito le nuove ali del postribolo sui lati nord (dove si trovavano la lavanderia, l’oreficeria, il laboratorio di ceramica e la sala da pranzo) ed est (dove c’erano la piccola segheria e le camere da letto: sulla porta delle quali era appesa una copia del Manifesto e Programma del Koinonía Gynaikôn di Ariminum curato dal Pescivendolo. In copertina, una xilografia di Lyonel Feininger raffigurava il lupanare investito da tre raggi luminosi corrispondenti a sesso orale, bondage e gangband);
due bottiglie bianche, entrambe con un dito di vodka sul fondo, si sarebbero tramutate nei coni di vetro che connettevano l’edificio preesistente e le nuove ali. Erano spazi speciali: il Salon de la Rue des Moulins, molto apprezzato dagli scambisti, e la Maison de Madame Saffo, riservata a pratiche omosessuali;
una fiasca panciuta, ripiena di assenzio, avrebbe costituito il modello del parcheggio per biciclette (non sorvegliato, specificava un avviso). Il sindacato delle prostitute aveva deciso di praticare riduzioni di prezzo sulle prestazioni ai clienti che, per raggiungerle, usavano mezzi ecologici. Il cinque per cento di sconto era applicato a coloro che si presentavano con le chiavi del lucchetto del catenaccio, o il biglietto del bus, o il libretto dell’auto elettrica (tre per cento, se ibrida).
Leggende. Storie. Miti. Di certo, lo splendore puro della Luna piena, sbucata fra torri altissime di vapori acquei e cristalli di ghiaccio, inondò all’improvviso tutto l’insieme, sgorgando con imparzialità triangolare dall’abbaino aperto. Gli oggetti furono immersi in una luce di sogno, che diede loro uno stacco e una precisione tali da renderli, paradossalmente, quasi intangibili, essenziali: Idee platoniche.
La lampada a petrolio e le stoviglie adesso così ben definite, individualizzate, parevano nel contempo rimandare all’esistenza di una segreta connessione dell’una con le altre. Ma soprattutto, nonostante l’equanimità con cui erano investiti dall’illuminazione selenica tutti gli elementi della composizione, alcuni scintillavano, altri meno, altri ancora rimanevano in parte oscuri.
Spiccava per cupezza il collo di vetro del lume a petrolio, di per sé diffusore di luce. Quella lampada invece non brillava più: era una stella morta, un buco nero. Gli altri oggetti irradiavano chiarore ciascuno a suo modo. Parevano essere in un equilibrio instabile o in una diversa fase della loro evoluzione. C’era una macchia luminosa sulla pancia della fiasca, ma fievole, stava scomparendo. Così le modanature sul collo delle bottiglie di vodka: mano a mano che salivano verso il tappo, si confondevano le une con le altre – erano quasi sul punto di cancellarsi. I recipienti stavano perdendo la loro forma specifica, per tendere, come gli altri oggetti, e la luce stessa, alla dissoluzione, al riassorbimento nelle fauci dello spazio unico, assoluto, dello sfondo, Essere o Nulla che fosse.
Il Roc si era appollaiato sulla testa di una Musa Inquietante a lato del tavolo, un manichino-portacappelli in cui era stato installato il software di Milton. Di qui osservava la luce, le ombre, le relazioni che si determinavano fra gli oggetti e le trasformazioni individuali di ciascuno di questi.
«Ehi Milton»» disse. «L’uno e i molti. Perché? Per quanto tempo? Diacronicamente, sincronicamente, definitivamente, ciclicamente? Milton, mi senti? Hai capito la domanda?».
In risposta ottenne solo il ritorno di un lancinante mal di testa.
“Bene più non seppe, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
della vodka rattrappita a fondo botte
e del falco positronico di notte
levato fra il cloud di un cielo bigio”
cantò il JubJub, dopo aver raggiunto il compagno nel giardino giapponese di quella cucina ipertecnologica, ma ricca di piante, d’erbe, di fiori disposti nel grande ziggurath vicino al tavolo.
Tutto era gestito dall’Intelligenza Artificiale. Milton. Quel luogo era la chiara dimostrazione del fatto che l’uomo non è più artefice della propria esistenza, che ha perduto la sua capacità di iniziativa, addirittura la sua autonomia nell’ordine delle cose. In compenso, i valori di temperatura, pressione, umidità erano ottimali. Forse solo nel Paradiso Terrestre il microclima era così equilibrato.
Ciononostante, il JubJub, ovunque rivolgesse lo sguardo, trovava del patimento. I vegetali erano in stato di sofferenza, chi più, chi meno. Là quella menta, indispensabile per il Moscow mojito con cui il Custode innaffiava la prima colazione, era stata offesa dal Sole interno di un neon, che pure le aveva dato la vita; si corrugava, languiva, appassiva. Là quell’alberello di limoni, umili ornamenti allo spritzsenzio, il cocktail del meriggio a base di Aperol e assenzio inventato da Earnest, era succhiato crudelmente da un calabrone gigante nelle sue parti più sensibili, più vitali. In tutto quell’Eden automatizzato non si trovava una sola pianticella del tutto sana. Qua un ramicello era spezzato dal suo proprio peso; là uno Zeffiretto, entrando dal lucernario, andava stracciando un fiore, volava con un brano, un filamento, una parte viva di questa o quella pianta strappata via.
Ai margini della scena stava il Roc semi dormiente, sulla cima della Musa Inquietante, in una posizione raccolta, per contenere il dolore dell’emicrania che aveva ripreso a torturarlo: una postura che non lo poneva tuttavia fuori dall’esperienza del mondo che lo circondava. Al contrario: evitando la centralità, proprio nel momento in cui si appartava rendendosi quasi invisibile, proprio allora mostrava l’appartenenza a un Universo che comprendeva tutto quel che è vivente e, al tempo stesso, dolente: come dire che il male di vivere, concludeva il più vigile amico, è la fisica stessa del mondo.
Del resto, il JubJub era un vero poeta – quindi del partito del diavolo senza saperlo.