Domenico pensava al padre; pensava al figlio; non pensava allo spirito santo ma alla moglie, ma il senso di colpa c’era lo stesso. Saliva guardingo il pendio di vico dell’Imbasciata, e arrivato a metà della strada che portava su verso Sant’Elmo si fermò, diede un’occhiata furtiva alla strada e bussò a un terraneo.
“Teso’ entra, è aperto!” squillò una voce dentro. Domenico spinse la porta e sentì l’odore buono di cucinato lento. Si fece avanti mormorando un “permesso” timido.
“Te piace la genovese? sì?”
Domenico guardò le tendine alla portafinestra, il pavimento di piastrelle beige sbreccate e il letto in un angolo. Vide ai fornelli la figura di spalle, la vita stretta dai lacci di un grembiule e il sedere generoso nella gonna.
Maronna quanto è femmina pensò, e sentì lo scroto mollo e caldo per l’eccitazione e la vergogna e la colpa di quello che aveva pensato; si sedette e poggiò una bottiglia sul tavolo.
“Pure il vino? Ma allora è un appuntamento!” Lo scroscio di risa che seguì fece allegria a Domenico, che si rilassò un poco.
Seduto paziente aspettava le portate, godendosi la premura a cui non era più abituato. E beveva, beveva, sperando che il vino stordisse il senso di colpa e la sensazione di sbagliato; e invece gli erano venuti gli occhi lucidi e le mani irrequiete.
“Allora, t’è piaciuto?”
Domenico fece sì con la testa e si accese una sigaretta appoggiato allo schienale della sedia. Quando gli fu portata la tazzina del caffè sbirciò nella scollatura. Si alzò un po’ malfermo e sentì il tepore di due braccia intorno al collo e i seni che gli premevano al petto. Affondò il viso nel profumo dei capelli. Poi ebbe un soprassalto, come un ripensamento e chiese:
“Ma tu, lo tieni ancora ‘o pesce?”
Rise allora Titina, rovesciando la testa all’indietro e tenendosi forte a Domenico. “E non lo vuoi vedere?” disse poi piano all’orecchio di Domenico, che sentì di nuovo rimescolarsi sotto l’ombelico la colpa con l’eccitazione.
Domenico di Dio guardò il seno rifatto e i capelli tinti di Titina ed ebbe un’intuizione, di quelle che pure i più disgraziati hanno almeno una volta sulla propria vita: pensò alla moglie, che gli era moglie ma non gli voleva più bene da quando l’aveva messa incinta, a quando diceva scendo a lavorare e invece andava a fare il parcheggiatore abusivo a piazza Cavour; pure a quando teneva fame e si contava gli spiccioli in tasca. E allora, pensò, pure la bellezza falsa di Titina andava bene.
Si fece condurre al letto ma chiese comunque: “Se lo tieni ancora come facciamo?”. Titina lo fece stendere, si poggiò di fianco a lui e sorrise: “E vedrai che qualcosa ci inventiamo”.
Fu dolce come ogni prima volta dovrebbe essere.
Gridava quella sera la moglie di Domenico; rideva e chiamava ricchione lui e cornuta se stessa e rideva ancora battendosi il petto perché, cornuta di chi? Di una femmina che non c’era? Stringeva i denti e si teneva con le mani la pancia gonfia e piena di vita e avrebbe voluto che crepassero lui e il bambino, il padre che voleva andarsene e la creatura che voleva arrivare, l’uomo che l’aveva tenuta ferma e il bambino che l’aveva inchiodata; non smise nemmeno quando la pancia si fece dura per i crampi, piegata su un ginocchio sputava saliva e bestemmie a Domenico.
Gridava pure Titina, rivoltata e tòrta sul pavimento beige, e i femminielli amici suoi la tenevano ferma, che non si facesse male, e litaniavano. Titina gridava per l’uomo che non c’era, e pure per quello che era nella stanza e purtroppo era lei, gridava dove sei a Domenico e pure a se stessa.
La incitavano quelle intorno: perché quell’amore raggrumato non aveva un ventre cavo dove attecchire e lo aveva fatto nel vuoto della vita di Titina, che si teneva la pancia e le faceva male come se stesse per dare un bambino: e le faceva male perché stava per dare un bambino. E perché no, se l’amore di un uomo non ci doveva essere eppure c’era, se donna lei non lo doveva esserlo eppure era lì. Spingeva allora Titina a far uscire il suo dolore e stringeva sudata le mani di quelle intorno che gridavano ‘a figliata ‘a figliata e la incitavano, e quando non ce la fece più, si irrigidì e cacciò un ultimo grido e si lasciò andare.
Il più giovane dei femminielli corse allora da ‘onna Lenora giù in fondo alla strada e si fece prestare la figlia di un mese; la mise in braccio a Titina e insieme agli altri intorno la vezzeggiò e disse che bella mamma.
E che altro poteva fare Titina, se non accontentarsi della femmina che era, se lo era, e di un amore che non sapeva se sarebbe mai tornato; di un bambino che aveva partorito e tra poco non ci sarebbe stato più. Si aggiustò il bambino in braccio e sorrise, e pensò che pure quella vita finta andava bene.