Sto fissando quella pianta da cinque ore e cinquantacinque minuti, quella cazzo di palma non si muove. È immobile, come me che sono qui a fissarla. Sono io a tenerla immobile, se mi muovessi sono sicuro che si muoverebbe anche lei. Sono quasi sei ore che ci guardiamo io e quella fottuta palma, è una questione di nervi.
Penso spesso all’incidente che è capitato ad Hembley.
L’ufficiale medico ha detto che gli è partito un colpo pulendo l’arma, ma anche io conosco il freddo del fucile contro il mento e mi domando quale sia il confine tra la codardia e il coraggio. Dal giorno in cui abbiamo piegato la bandiera sulla bara del tenente Hembley pulisco il mio M16 guardando la foto di Nora: me l’ha spedita alla base militare di Da Nang, la lettera mi è arrivata grazie a un commilitone che sapeva della mia posizione qui alla Fortezza.
Nella foto Nora sorride sul patio dei suoi genitori, ha i capelli raccolti e io sogno tutte le notti di chiederle di scioglierli, come quel pomeriggio nel fienile, prima che ricevessi la cartolina di arruolamento. Lei ha quel suo modo di sciogliere i capelli, come se insieme ai suoi capelli cadesse il mondo intero, e quando lei li scioglie io cado e cado e cado.
Sono sei ore e tre minuti che quella palma mi fissa. Crede di tenermi fermo ma io sono più forte di lei. Muovo un braccio e si muove anche il suo ramo, mi piego in avanti e anche lei si piega, sto per fare un passo ma vengo fermato da McLean.
– Io aspetto quadri, e tu?
Appoggio il piede accanto all’altro e anche la palma torna alla sua posizione.
– Io aspetto la donna di fiori, – gli rispondo sorridendo. McLean era così anche prima di arrivare alla Fortezza, per questo fa turni più lunghi degli altri.
– Hai mangiato burro a colazione? – mi chiede.
– No, perché?
– In quel burro c’è l’acido palmitico. Viene dalle palme, è il grasso con cui attiviamo l’acido naftenico.
– Cosa...?
– Acido naftenico e acido palmitico. Napalm. Lo mangiamo la mattina, come i Viet là fuori, anche loro lo mangiano la mattina. Non con il burro però.
– McLean, sono stanco, vado in branda.
Mi allontano e sento che McLean parla con la palma. – Io aspetto quadri, e tu?
Chissà se a lui risponde.
Nora mi aspetta nella mia stanza.
Non è possibile, o sto sognando o McLean mi ha attaccato la sua follia.
Se dormo lasciatemi dormire, se sono pazzo lasciatemi sognare. Nora è qui, e ha i capelli sciolti.
– Nora, – i miei occhi sono asciutti, non riesco più a piangere da quando sono alla Fortezza. Allungo le mani verso di lei.
Lei si alza e le prende nelle sue. – Papà? Come ti senti oggi?
Chi è questa donna?
Assomiglia a Nora ma non è lei: ha gli occhi castani e non verdi come li ricordavo, è più alta di me, e non ha la sua bellissima voce roca con quel forte accento del Sud che trascina tutte le vocali. Anche la stanza è diversa, è tutto troppo bianco. La mia branda è un letto con le sponde, fuori dalla finestra vedo un giardino curato con piccole palme che si muovono al vento.
– Papà, mi riconosci?
Constance. Il nome mi sfiora le labbra ma non riesco a collegarlo a nessun ricordo.
– Sei la nuova infermiera del campo? Hai notizie da Saigon?
Scuote la testa, sembra triste. Ha un piccolo nasino all’insù, mi viene voglia di prenderlo tra le dita.
Dov’è il tuo nasino? Cucù non c’è più. Se l’è portato via un topolino.
Per un attimo tutto torna. L’esplosione, il congedo e la medaglia al valore. La nostra casa, bianca come l’aveva sognata Nora, la curva tonda del suo pancione, una due tre volte, Jennifer Martin e Constance, gli anni veloci, i ragazzi che corrono in giardino, il primo giorno di college di Jen, il matrimonio di Martin, il nasino di Constance, la roulotte su cui volevamo girare l’America, i camici bianchi, le guance scavate, gli occhi verdi di Nora che mi imploravano: lasciami andare.
– Sono io, Constance.
Il dolore si prende tutto come il giorno in cui McLean ha attivato il Napalm dentro la Fortezza. Avevo mangiato burro a colazione ed ero stato male, mi sono salvato solo perché i cessi erano sottoterra. Quando sono emerso dalle macerie quella fottuta palma era ancora lì, non si era mossa. Eravamo rimasti solo io e lei.
I ricordi fanno troppo male, lascio che la nebbia torni e mi avvolga.
Cucù, non c’è più.
Sono ancora qui, nella Fortezza.
– Papà? Mi senti?
Se sogno lasciatemi dormire.
– Io aspetto quadri, e tu?