«Quello della lavastoviglie che mangia le posate è un mistero che, salvo poche e non meglio precisate eccezioni, ammanta tutte le case. E cosa ancor più strana: persino quelle dove la lavastoviglie non c’è».
Così, Rufo spiegava a Nico, suo fratello minore, che non serviva inventarsi delle scuse per spiegare come ormai dovevano mescolare il caffè a turno, con l’unico cucchiaino rimasto.
I due fratelli, che da un paio d’anni vivevano da soli dopo che entrambi i genitori erano mancati in un’incidente d’auto, la lavastoviglie ce l’avevano, ma era guasta da quel dì e non c’erano soldi per farla riparare.
Rufo aveva diciannove anni quando restarono soli, interruppe gli studi e finì dietro il bancone di una birreria per poter accudire il fratello, di cinque anni più giovane.
«Sai, Rufo, tra pochissimo tempo saremo liberi da 'sta menata delle posate; faranno delle protesi robotiche da piazzare al posto delle mani che saranno in grado di estendersi: così che da un dito della mano sinistra venga fuori una forchetta, da un altro della destra esca la lama di un coltello… poi ti lavi le mani… et voilà!»
«Ma che minchiate! Vedi di non buttare in pattumiera per sbaglio anche l’ultimo cucchiaino invece, ché con quello che mi pagano al pub non riusciamo a comprarne altri».
Nico, disarmato, guardò il fratello grattandosi la folta capigliatura corvina.
La sua chioma era come quella della mamma, e pareva che da lei avesse preso anche ciò ch’era protetto all’interno di quel testone: la sua fantasia, la sua ribellione; il suo essere sempre un passo avanti a tutti gli altri, come se notasse cose che i suoi contemporanei non erano in grado scorgere, non ancora, oppure che mai avrebbero visto, perché privi di quella sensibilità.
È una donna fantastica! Ricordava Nico di come suo padre descriveva la mamma, parlando con qualcuno. Era un ricordo recente, e gli rammentava quanto il papà fosse innamorato di quella donna mingherlina, tutta nervi, dai guizzi imprevedibili. Erano entrambi innamorati, come fossero ancora adolescenti, com’era Nico adesso, e custodiva gelosamente quel ricordo, insieme agli sguardi che si scambiavano ricchi di stupore e divertimento.
A scuola, Nico non andava benissimo. Non sapeva dire il perché, salvo che i professori lo annoiavano… solo la professoressa di Italiano, per la quale nutriva un amore segreto, era in grado di toccare certe sue corde. Quando, ad esempio, in classe, commentando un brano dall’antologia, parlava dei sentimenti. Lui si eccitava al punto di sognarla poi di notte, masturbandosi mentre lei recitava “Canto d’amore”, ora in italiano, ora in tedesco; trasfigurando quel violino nel corpo di lei, fatalmente attratto dalla sua voce, ché il suo aspetto passava in secondo piano.
Rufo non lo avrebbe capito, non poteva capirlo. Nico aveva deciso così. Senza che mai gliene avesse parlato, perché sprecar fiato? era preso da tutti quei problemi coi soldi, le bollette, il mangiare da mettere in frigo… Lui era come il papà, una persona concreta: visto che non c’erano altri parenti, aveva preso in mano la situazione e s’era dato da fare, testa bassa… un mulo. Un mulo buono però, e gli era riconoscente. Gli voleva bene.
Pazienza, mi terrò tutto per me, si diceva Nico serafico barando con sé stesso, giacché questa cosa di non riuscirne a parlare con suo fratello gli pesava come un macigno.
Capitò poi, un giorno, che Rufo venne contattato dalla scuola del fratello. Lo convocava l’insegnante di Italiano.
«Tuo fratello mi ha lasciato un biglietto ieri, dopo la fine della lezione» il tono era serio, ma si era rivolta a lui in modo confidenziale, dandogli del tu, in fondo anche lui era stato suo allievo.
«Nico non sarebbe capace di far minacce o cose del genere, non è tipo…» disse Rufo, rivolgendosi più a sé stesso che altri.
«Oh no, non è una manifestazione aggressiva» replicò la prof, abbozzando un sorriso «al contrario, è una dichiarazione d’amore»
«Ma cosa gli è saltato in testa? Questa sera mi sentirà…»
«No Rufo, per favore, non dirgli niente, e soprattutto non vorrei sapesse che ti ho parlato»
«Ma come… perché?»
«Credevo fosse corretto che tu lo sapessi, ma non certo perché gli facessi una ramanzina. Non ha fatto niente di male e ti assicuro che il suo messaggio non è osceno, né scurrile, ma piuttosto… poetico. Domani parlerò con Nico, e cercherò di spiegarli perché possa non essere opportuno rivolgere a me le sue attenzioni; magari la prenderà bene, o magari questa cosa gli causerà qualche turbamento ed è questo che vorrei chiederti di osservare sapendo di cosa si tratta, perché tu possa stargli vicino. Per me sarà stata solo una sciocchezza, ma per lui forse no».
Due giorni dopo, a colazione, Rufo chiese: «Ehi, Nico, a scuola come va?»
«Non me lo chiedi mai… ma sì, piuttosto bene, tutto sommato. Sai, la prof di Italiano mi ha parlato ieri…»
«Ah sì, e cosa ti ha detto?»
«Dice che me la cavo bene con la poesia… roba strana: non ci avevo mai pensato» rispose Nico, mescolando il caffè con il culo di una forchetta.