Della "mostra" pensai che si trattasse di una punizione dovuta ad un atto osceno compiuto da una bambina sciocca e incivile, figlia di una famiglia blasonata ma caotica che ricercava una quiete ormai perduta. Non ci mise meno di venti minuti, mia madre, a spiegarmi che la mostra altro non era che una raccolta di raffigurazioni, come quelle che facevo io con cere e carboncini, messe in un grande palazzo perché chiunque le potesse ammirare.
Ma per me che non sapevo nulla di artisti e movimenti vari, la mostra restava un folkloristico personaggio dell’orrore locale che null’altro voleva se non la mia anima.
Esitavo aggrappata alla manica di mio padre, con le lacrime che traboccavano in una discesa spericolata verso il mento e poi ancora giù sui lastroni della piazza. Le piccole gotiche bifore somigliavano alle migliaia di occhi maligni della tarantola, il vano d’ingresso spesso mezzo metro con maniglie d’ottone sbiadito sembrava volersi richiudere alle mie spalle per non aprirsi mai più.
Visualizzai i denti appuntiti di zia Serenella che apparivano dello stesso malsano color ottone, invece che perlati. Le nere orbite infossate e lo sguardo porcino costringevano alla defezione anche gli adulti più pavidi, che si inventavano le scuse più astruse per potersi mettere in salvo dai suoi naftalinici abbracci. La vista di zia Serenella era causa, ogni volta, di un diverso sintomo medico: pirosi, lacrimazione, tensione muscolare, anosmia, tic oculari. La rividi nei larghi fianchi dell’edificio e mentre mi avvicinavo inesorabilmente all’ingresso sentivo la sensazione delle sue braccia da mantide che mi afferravano per salutarmi. Quel bacio da zia colorato di rossetto dozzinale, pungente di peluria, ripugnante d’umidità, il mio piccolo corpo schiacciato sul seno ingombrante. Era un momento dal quale non potevo ritrarmi, sentivo che qualsiasi comportamento diverso avrebbe oltraggiato la zia, la nonna, mortificato i miei genitori. Non capii mai come zia Serenella potesse essere un membro della famiglia, non avevamo nessuna caratteristica comune.
Ancora pochi passi e sarei entrata nella mostra Serenella. I nostri passi sul selciato suonavano come i tacchi della mostra nel vialetto di casa e mi attanagliava la pancia la stessa sensazione di vuoto. Terrorizzata e tremante guardai i miei genitori che mi sorridevano mentre strisce di sale mi si erano seccate sulle guance.
Oltrepassammo la soglia spessa mezzo metro con appesi i denti della zia, una biancastra luce oscurava la visuale dall’altra parte. Mio padre mi portò a sé.