All’ingresso di vicolo Baiamonte, al piano terra della palazzina attigua al magazzino dove nonno Giuseppe stoccava le merci di cui faceva commercio, abitava una zia di mia madre, la sorella maggiore di nonna Cristina.
Angela Bannò, che tutti chiamavamo “zà Ancilicchia”, era nota per i consigli che elargiva con la prudenza di chi è restio a immischiarsi nelle faccende altrui, e soprattutto per i verdetti salomonici che emetteva con la riluttanza di chi, suo malgrado, è costretto a giudicare il prossimo.
Amava i proverbi, e spesso li citava nella convinzione che l’esperienza comune a molti è sempre frutto della verità e maestra di vita.
Nonostante fosse molto riservata, sopportava con infinita pazienza le frequenti invasioni di parenti e vicini che ricorrevano a lei per dirimere liti e controversie. Senza interrompere l’occupazione cui era dedita nel momento in cui gli invasori prendevano d’assalto la sua casa, volgeva uno sguardo rassegnato verso la porta d’ingresso, e si preparava ad assistere al solito rimpallo di minacce e reciproche accuse.
Con il distacco di un esperto di anime, zà Ancilicchia seguiva in silenzio il caotico sciorinare dei torti subiti e delle ragioni millantate dalle parti, e accoglieva con equanime indifferenza le presunte prove rese a dimostrazione dell’innocenza dell’uno o dell’altro dei litiganti. La sua impassibilità s’incrinava solo quando uno di questi commetteva l’errore d’invocare il cielo a testimone della propria innocenza.
A quel punto, la zà Ancilicchia interrompeva l’immobilità a cui si era costretta per lasciare più spazio agli invasori o forse per non esserne travolta, e dava inizio a un rito che nessuno di quelli che la conoscevano avrebbe mai osato interrompere. Con una calma che raggelava gli ardori degli attaccabrighe, si avvicinava al quadro della Sacra Famiglia, appeso alla parete di fronte all’ingresso, portava la mano sinistra sul petto scarno, e con la destra si segnava con il segno della Croce. Con gli occhi chiusi e le labbra serrate, abbassava il capo, come se dicesse “sì”, e allargava le braccia. Poi si girava verso gli invasori e li guardava, quasi fosse in attesa di una risposta, una parola di conforto, un po’ di sollievo. Ma nessuno osava fiatare. Zà Ancilicchia si lisciava il grembiule che indossava sempre quando era in casa, ed estraeva dalla tasca destra la sua tabacchiera. A quel tempo alle donne “oneste” non era concesso fumare, potevano solo annusare il tabacco, che conservavano in deliziose tabacchiere. A seconda delle proprie disponibilità economiche, le tabacchiere potevano essere di legno semplice o intarsiato, o d’argento con decorazioni di madreperla, pietre dure o preziose, e persino oro. Quella della zà Ancilicchia era di legno nero, con il coperchio decorato con madreperla.
Allora, l’unico suono percettibile in casa era lo scatto prodotto da quella scatolina, da cui la zia pinzava, tra il pollice e l’indice, una generosa dose di tabacco, seguito da una vigorosa sniffata di quelle narici che sembrava avessero finalmente ripreso a respirare.
Poi, con una voce appena udibile, ma carica dell’autorevolezza che si conquista per i meriti e i pregi, emetteva uno dei suoi verdetti inappellabili. C’era qualcosa nello sguardo e nella voce di zà Ancilicchia che non ammetteva obiezioni. I suoi occhi sembravano vedere quello che gli altri ignoravano, la sua voce risuonava da profondità e altezze inaccessibili ai più. In ogni sua parola e azione si manifestava la consapevolezza che non è dall’alto che riceviamo meriti e virtù, ma dal basso, nell’intestina e quotidiana lotta contro i vizi umani.
Spesso ripeteva “Puru u Signuri fu crucifissu pi peccaturi”.
Zà Ancilicchia non anelava a correggere e tantomeno a giudicare il prossimo, semplicemente si aggrappava alla fede per rendere la sua vita quanto più possibile coerente al Cristo a cui dava del “Voi”. Era operaia nella vigna, frutto e primizia dell’umanità.
Quando finalmente gli invasori lasciavano la sua casa, zà Ancilicchia cadeva stremata sulla sedia sotto il quadro della Sacra Famiglia, e con la voce stanca sussurrava “Signuri Vi ringraziu”.
Per il parentado e gli abitanti di vicolo Baiamonte, la zà Ancilicchia era la Corte di Cassazione. Per mia madre era l’unico conforto, le braccia che avevano sostituito quelle di nonna Cristina. Per me e i miei fratelli, era la tana in cui trovavamo sicurezza e pace, era il modello da imitare, la risposta a miriadi di “perché?”
"Vicolo Baiamonte" è dedicato a Marghe Mesi e Silvia Lenzini. Questo è il mio umile "grazie" anche ai tanti utenti di Typee che, con i loro consigli e suggerimenti, mi aiutano a dare forma alla mia più grande passione: la scrittura.