A Matteo la cosa che piace davvero di quei posti è l'insegna lampeggiante.
Aperto, recita, a qualunque ora del giorno e della notte.
Se ne è accorto fin dalla prima volta che ha appoggiato l'indice titubante al campanello. Incertezza, paura e desiderio sordo gli si mescolavano nello stomaco. Poi, più che l'immagine estatica di un'orientale su fondo rosa che giganteggiava lungo tutta la vetrina, è stato lo sfolgorio ritmico di quell'aperto a esercitare la sua muta profferta.
Ha suonato.
Le ragazze vanno e vengono dalla Cina, nessuna dura più di qualche settimana. E anche questo gli piace, perché aggiunge all'attesa del piacere il frizzante della scommessa. Se gli va male non c'è da immusonirsi, esce comunque leggero. Se gli va bene, e incappa in quella giovane, o in quella infervorata, un sorriso ebete gli si stampa sulla faccia e non se ne va per tutto il giorno. A tavola il buonumore lo rende ciarliero, piacevolmente frivolo. E quando addirittura si alza per sparecchiare, sua moglie Arianna cinguetta: «Ma che cosa è successo oggi?».
Niente cara, è solo che Gaia, o Giada, non ho capito bene, mi ha fatto gustare qualcosa di un po' diverso dal menù base che da tredici anni questa casa mi propina. E considerato che me la dai solo dopo che ti ho portata fuori a cena – perché se no è solo sesso, sostieni, così è più romantico – ti dirò: non è solo un discorso di qualità, ma anche di rapporto qualità-prezzo.
E oggi è andata veramente bene.
Matteo scivolò fuori dal centro massaggi e fece scattare l'antifurto dell'auto mentre si guardava intorno, che non si sa mai che lo riconoscano, lo additino, spargano la voce.
Ma no. Non c'è nessuno.
Sprofondò nel sedile e accese l'autoradio. «Pezzoneeee!» gridò entusiasta nell'abitacolo vuoto, mentre partivano le note sintetiche di qualche cagata degli 883.
Un quarto d'ora da qui all'ufficio, in tempo per la conference call. Perfetto. Programmiamo il navigatore.
Tastò prima le tasche della giacca, poi quelle dei pantaloni.
Lo smartphone non c'è.
Di nuovo ficcava le mani già sudate nelle tasche, le rovesciava. Uscirono scontrini appallottolati, monetine. La chiavetta per il distributore del caffè, ecco dove era finita.
Quel cazzo di cellulare non c'è. Mi deve essere scivolato mentre mi calavo i pantaloni. Uscì dall'auto e si voltò verso l'insegna proprio mentre la porta si apriva per accogliere un altro cliente.
Senza navigatore non so tornare in ufficio, e non posso nemmeno avvertire che sono in ritardo.
Pregò che il cliente fosse un morto di fame, uno di quelli che scelgono l'opzione da venti euro. Se no, qui tiriamo notte.
Una Marlboro light dietro l'altra.
Metodico, a ogni mozzicone defenestrato usciva dall'auto e pigiava il campanello. Niente. Conosceva il protocollo, del resto: se la ragazza è da sola ed è impegnata con un cliente, non risponde. Ne va del buon nome del centro massaggi. A ogni squillo inghiottito dal vuoto l'ansia gli si arrampicava un po' di più su per la gola. Si accendeva un'altra sigaretta e il ciclo ricominciava.
Finché, proprio mentre ondeggiava con l'indice teso al campanello, la porta si socchiuse. Un ricciolino insulso in Lacoste verde mela passò dal buio quasi completo dell'ingresso all'afa abbagliante del pomeriggio, e lo fissò. No, non chinava lo sguardo sotto il peso dell'imbarazzo, come tutti quando escono di qui.
Mi ha guardato negli occhi, si stupì Matteo. Prima che si allontanasse lungo la via chiazzata da pisciate di cane, gli parve che la bocca dello sconosciuto si storcesse in una smorfia enigmatica.
Dietro di lui la ragazza in accappatoio gli sorrideva, faceva ciao con la mano unta di olio di jojoba.
«Ancoa massaggio?», domandò sorpresa. Indecisa tra la vibrante r e la liquida l, aveva reciso il nodo gordiano omettendo direttamente di pronunciarle.
«Il cellulare, cazzo, il cellulare! L'ho perso qui!». E fece il segno di una cornetta portando al lato della faccia pollice e mignolo allargati.
Sulle prime la principessa del Catai fraintese, pensando che Matteo volesse il suo numero di telefono; ma, dopo un lungo gesticolare da parte di entrambi, capì, e lo ammise all'alcova.
E se quello stronzo ricciolino l'ha visto e me l'ha rubato? Boh, tanto c'è il codice di blocco.
Ma no, il cellulare era lì a terra, in un angolo. Figuraccia sul lavoro per il ritardo, ma pazienza. A inventare scuse, Matteo era bravissimo. Prima di salire in ufficio avrebbe passato le mani sul pneumatico in modo da sporcarsele. Dirò che ho forato e che ho dovuto cambiare la gomma, ma il cric idraulico in dotazione non funzionava eccetera.
Scorse le chiamate recenti per telefonare in filiale, e se ne accorse.
Arianna aveva chiamato dieci minuti fa.
E qualcuno aveva risposto.
Infilò le chiavi e fece cadere, dall'altra parte della porta d'ingresso, le chiavi di sua moglie. Arianna è già in casa. Come mai è rientrata così presto?
La risposta, lo sapeva bene, stava in quei trentadue secondi dell'ultima telefonata alla voce Amore della rubrica dello smartphone. Trentadue secondi. Un'eternità.
Per tutto il pomeriggio aveva pensato a come affrontarla. Ora si sentiva la testa pesante, ma vuota di risposte.
«Ehi», lo salutò lei, sdraiata sul divano, già in tuta. Non lo guardò nemmeno. Apparentemente rivolgeva tutta la sua attenzione a dei tizi americani in salopette che, su un canale satellitare, stupravano un'aristocratica villa neogotica elevando pareti in cartongesso color lavanda.
Si sedette rigido accanto a lei sul divano. Fissava lo schermo senza guardare, e non sapeva se aspettarsi una domanda secca, dell'ironia, un pianto sommesso o cosa. Lei appoggiò i piedi nudi sul lato della coscia del marito, muovendone ritmicamente le dita mentre distribuiva faccine sulla chat del suo smartphone.
La villa, l'ammazzarono definitivamente dipingendone la facciata di giallo canarino. Tanto valeva abbatterla. Durante i due minuti di pubblicità l'angoscia ingoiò Matteo con la forza di un buco nero. Si alzò quasi di scatto.
«Che dici, mangiamo? Scongelo qualcosa?», chiese, e la voce era il gorgoglio di un ruscello strozzato.
«Va bene», rispose Arianna. E per la prima volta, lo guardò. Ma solo per un momento. Poi vagò con gli occhi per la sala a cercare qualcosa o niente.
«Ci sono i Quattro Salti in Padella, o la pizza di settimana scorsa. Scegli tu, che per me è lo stesso».
A cena chiacchierava, Arianna. L'angusta cucina si popolò dei protagonisti sempre uguali delle sue giornate sempre uguali: la capa che si prendeva tutto il merito del suo lavoro, il collega che da quando è diventato papà dovresti vedere quanto è tenero, parla solo di sua figlia, la guardia giurata che, lo sapeva anche senza voltarsi, le inchiodava le pupille sul culo mentre strisciava il badge.
Matteo la spiava in tralice mentre con la forchetta rimestava l'osceno guazzo da cui affioravano gamberetti decongelati - spaghetti allo scoglio: mai più, rifletté, in una parodia di normalità -, e sì, era diversa. Ha qualcosa dentro. Qualcosa che sta per uscire, per riversarsi sul tavolo da pranzo sotto forma di vomito o di accuse. Lo sento, che sta per uscire. Si fa strada tra il cibo semidigerito e le parole vuote. Quasi lo vedeva fare capolino dalla sua bocca, quel qualcosa, dietro un incisivo bianchissimo su cui si era incagliato un coriandolo di prezzemolo.
E va bene. Basta adesso.
«Perché sei tornata a casa prima, stasera?», le chiese, tutto d'un fiato, senza alzare gli occhi dal piatto. Tormentava, Matteo, una seppiolina che non avrebbe mangiato.
«Avevo un meet up da un cliente qui vicino. Dovresti vedere che acquario ha nell'ufficio... pesci luna grandi come... guarda, come i nostri piatti, tipo».
A che gioco giochiamo?
«Che c'è?», sorrise lei, «Che cos'è questo muso? Aspetta», e il sorriso trascolorò in una risata allegra o forse perfida «Non sarai geloso?».
Oddio, mi dispiace per quello che ho fatto, Arianna. Ma cazzo, non mi puoi mettere in croce così. Non puoi.
Matteo le piantò gli occhi addosso. Ispirò.
«Mi hai chiamato, oggi, intorno alle due e mezza».
Arianna esitò. Le sue pupille quasi occuparono tutta l'iride, la bocca si serrò per un istante.
«Non mi sembra. Anzi, sono sicura di no. Ero in riunione, a quell'ora». Si alzò e gli diede le spalle, affaccendata sulla caffettiera.
«Lo faccio anche per te?», chiese, soppesando il cucchiaino ricolmo di caffè.
«Ari, mi hai chiamato. Alle due e mezza».
«Ma si può sapere che cos'hai? Mi sarà partita la chiamata. Capita». Parte del caffè si sparse fuori dalla moka perché ad Arianna tremavano le mani.
Quella sera Matteo finse di addormentarsi sul divano. Dormire, in realtà, era impossibile. Verso l'alba si avvicinò furtivo al comodino della camera matrimoniale, dove Arianna teneva il cellulare in carica.
Voleva vederla. Quella chiamata, voleva vederla.
Appoggiò con delicatezza il pollice della moglie che dormiva al tasto di riconoscimento dell'impronta digitale. La schermata home illuminò la stanza.
Guardò tra le chiamate del pomeriggio. Sì, la chiamata era partita. Sì, qualcuno aveva risposto.
Ma non c'era solo quella.
Sette chiamate a Guido, il collega che ha appena avuto la figlia.
Matteo non resistette. Andò sulla chat.
- Ma che cosa ti è venuto in mente di chiamare mio marito mentre ero in bagno? Ma sei SCEMO????
- Volevo sentire la sua voce. Capire che cos'ha più di me. Scusa. Non volevo. È stato più forte di me.
- Ma che cosa vi siete detti? Oddio, in che guaio siamo, Guido!!!!
- Ma no. Niente. Ho chiamato, lui ha detto “pronto”, e poi siamo stati zitti a sentirci respirare. Così, per mezzo minuto, tipo. Davvero, scusami Ari.
- Non fa niente, è tutto ok. È stato bello oggi. Grazie. Mi fai sentire speciale.
La luce opaca del display illuminava il viso di Arianna. Dormiva tranquilla. Matteo si stese accanto a lei.