L’Aurora sfiora con la lingua infuocata il Presepe di Sabbia. Si muove sulla testa delle statue con tocchi brevi, ripetuti, febbrili. Poi scende al di sotto, la luce le inghiotte fino al collo e oltre, per poi risalire. E ancora, di nuovo, su e giù, avanti e indietro, variando di continuo il ritmo e l’intensità, alternando passione e delicatezza. Bacia, lecca, succhia, solletica. Tantum aurora est.
Le sculture si ergono rigide, attraversate da tremore e timore. I granelli di creta e silicio sulla superficie fremono, accarezzati dal vento della pineta che, rinforzando, diventa una musica d’organo – i rami sono le canne e il bosco la cassa armonica. Al suono di quelle note, che intessono un motivo a mezza strada fra la Messa in si minore di Bach e la Lady Marmalade di Moulin Rouge!, si anima un piccolo Pierrot incappucciato. Si alza dalla posizione semi accucciata in cui è ritratto, vicino a una edizione dei Fiori del male, aperta sui versi “Gesù, ricordati dell’Orto degli Ulivi!”. Tiene la maschera nella mano destra, ma il cappuccio gli copre la faccia, lasciando solo intravedere il lungo viso riverberato di rosso, violetto e verde – gli stessi colori che striano le pieghe della stretta tunica di un bianco grigiastro: una comoda sindone slim fit in tessuto stretch. Nella sinistra stringe un bastone di cera da majorette – in cima arde una fiammella. Lazare veni foras.
Il fantasmino comincia a scivolare in avanti su binari invisibili, non appena il tema di Voulez-vous coucher avec moi, ce soir? è accennato dall’organista sovrannaturale – lo spettro di Nemo, avrebbe detto il Capitano, o, avrebbe immaginato il Custode, di una suora sexy come Anita Ekberg con indosso il Pretino, l’abito redingote nero che lascia scoperte le gambe, completato da un cappello da monsignore e dalla catena cardinalizia con una croce sul petto. Il Pierrot prende velocità e scivola via sul semicerchio di rotaie inesistenti. Di colpo, crolla a terra: ha sbattuto contro un respingente immateriale. Il corpo svenuto viene inghiottito dal terreno. L’ultima cosa che si vede è il braccio con il cerone acceso sprofondare fino a svanire. Le onde del mare s’infrangono sul litorale provocando i vortici di uno sciacquone. Amen.
Il frastuono dell’incidente occorso al Pierrot va placandosi, finché è coperto del tutto dal canto del gallo. Apre gli occhi un banditore, identico al Jep Gambardella de La Grande Bellezza. Nel suo sguardo si accende l’espressione al tempo stesso stupida e furbesca dei servi di Plauto o Terenzio. Vestito come il portiere del Macbeth, il pantalone ampio in tweed antracite portato con la camicia inamidata incoronata da una gorgiera elisabettiana e il gilè a fiori (iris), ha il viso scheletrico di uno Yorick baffuto, ma il pancione di Falstaff. Dà inizio a una sfilata di moda ecclesiastica, recitando con la grazia di Mercuzio quanto è scritto su un copione adagiato a un leggio: «Modello numero uno, classico per novizie. È disponibile in cotone Vichy o in lana d’angora, per adeguarsi alle diverse stagioni. Gli stivaletti sono di cuoio nei colori maròn tinello e blu marine». Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus.
Mentre il presentatore recita salmodiando la Parola di Dolce & Gabbana, due ballerine prendono il volo come nel sogno di un bambino: volteggiano angeliche in cielo per qualche minuto, ma in quei pur morbidi abiti i movimenti non sono quelli fluidi di un quadro di Chagall – ricordano più che altro i passi blues di Jake ed Elwood in missione per conto di Dio sul bancone di un bar gestito da Aretha Franklin. In sottofondo risuonano le note gospel di Respect. Allelúia.
Il modello numero due («Tourterelles immaculeés con cappello ad ali ventilanti utili per ambienti poco areati» spiega l’araldo dalla posa shakespeariana), il numero tre («Soeurs du Purgatoire in crinolina color carbone»), il quattro («tropicale, antimacchia con veletta: per suore missionarie») e il cinque («Modello Giuditta! Minidress con le maniche a sbuffo, in ventisette nuance, dal turchese al fucsia, dal senape al melanzana, dal bianco burro satanato al nero pepe di Aleppe») sono indossati da personaggi che cominciano a esibirsi mano a mano che viene nominato il modello che portano. Nomen Omen.
Al centro della pista, su un velocipede ottocentesco (l’organista sovrannaturale propone come soundtrack una versione da camera di Bicycle race), una carmelitana paonazza in viso per il sottogola bianco che stringe troppo intona una melodia («Bicycle, bicycle, bicycle, I want to ride my bicycle, bicycle, bicycle…»: il coro antoniano delle voci bianche di una schiera di cherubini bolognesi ne sostiene il volo canoro). Nonostante lo sforzo, con l’unico occhio rosso-nero, sporgente e strabico, alla Marty Feldman, scruta quello che accade sopra di lei, mentre il suonatore si lancia in un’elaborazione contrappuntistica di Like a virgin. Appesa a un trapezio, una monaca, con le ali ventilanti in testa, esegue il proprio numero tenendo sotto controllo ciò che accade sulla scala a sinistra. Una rampa che sembra puntare verso il nulla – un collegamento fra il tangibile e l’intangibile, una via di fuga da cui elevarsi verso una realtà sconosciuta e misteriosa? Forse, ma l’interesse della trapezista pare essere meno spirituale, dato che sui gradini si contorcono, in precario equilibrio, una robonun seminuda con le fattezze di Whoopi Goldberg e un prevosto, un Geppetto con i tratti di Pinocchio, nella posizione del missionario, benché in verticale. Le loro gesta sono accompagnate dal soave cinguettio degli uccelli di rovo e dallo stridio del Donald Suck che il Custode ha smarrito la sera precedente, durante la caccia al Giacometti Roadrunner. Misteriosamente si anima per qualche minuto. Quando la robonun e Geppetto raggiungono l’orgasmo, torna immobile e silente. Gaudeamus igitur iuvenes dum sumus.
Ora è la volta di due preti rossi, che sfrecciano su pattini a rotelle: «modello sportivo Au Paradis plus vite! (applausi da un gruppo di prelati a bordo campo), poi di altri due che assomigliano a Jude Law e John Malcovich: portano «vesti antivento per parroci di campagna destinati al soglio pontificio. Osservate i colori delle paillettes dai toni profondi ispirati alla pittura fiamminga, dal verde al ciclamino, lampi che illuminano di riflessi gli abiti delle puerpere ai loro fianchi: check lunghi e sbracciati con il corpetto impero, cappotti ampi o mantelle agili, al ginocchio o in maglia al polpaccio, i guanti e gli stivali in pelle – uno stile vintage ispirato a quello in voga presso la sorellanza delle Olgettine a inizio del secolo scorso» (di nuovo applausi); quindi «variazioni sacrestanesche per funzioni di prima classe» sono proposte da tre chierici in cotte pieghettate e turibolo, presi direttamente dal set di Habemus Papam.
Concentrati ognuno sulla propria esibizione, quei manichini di vivente argilla si fissano tuttavia di sottecchi tra loro, complici e collegati da una serie di sguardi, noncuranti dell’unico spettatore, il Roc. A lui si rivolge solo una figura all’estrema destra del palcoscenico («Ti piace, bambino?» gli chiede ammiccando): il prete esorcista domatore di anime, che il volto coperto di bianco ravvivato dal naso rosso e dalle macchie di colore rubizze rende simile a un Don Abbondio, la Bibbia in una mano e il catalogo di Versace nell’altra, con il compito di invitare chi osserva dall’esterno a entrare in pista per prendere parte all’esibizione. A sostituire, avrebbe detto il Pescivendolo con i suoi modi curiali, il sentimento soggettivo del vivere isolato con un sentire cattolico, in una fusione con gli altri che dall’esteriorità invade l’interno, conducendolo alla gloria dei cieli. Un matrimonio fra superficialità sensuale e profondo intelletto che s’ha da fare perché, avrebbe sostenuto, i sensi aiutano più della mera intelligenza a salvare l’anima: a focalizzarsi non sull’aspetto cognitivo, difficile, della fede, ma su quello sensitivo, accessibile a tutti, dell’esperienza. Per questo i robot, con i sofisticati processi di apprendimento basati sul machine learning, avrebbe completato il sermone il Piccolo Ed, sono il nostro futuro postumano e ultraterreno. Per ómnia sǽcula sæculórum, Deus ex machina.
Ma l’uccello, in posizione totemica, non reagisce a un invito che avrebbe provocato la gioia eterna di Daisy ed Helen: non è pronto a convertire lo stato di totale catatonia in uno connotato da maggior entusiasmo neppure quando incedono nell’arena vescovi e cardinali in pianete, ermellini, piviali, mitre, scarpe rosse di Prada, in un’atmosfera resa definitivamente liturgica dalle correnti d’aria profumate d'incenso, dai primi fulgori dell’Alba, dalla musica (O Fortuna – Carmina Burana). Introibo ad altare Dei.
Un fuoco d’artificio stupendo, ma effimero: le gerarchie ecclesiastiche con i loro abiti d’oro, di rubino, di topazio e d’argento lasciano il posto a sagome vuote di paramenti rutilanti che annunciano, fra trasparenze di cristalli, di veli, di cellophane e nel turbinio di petali di rose, un Luna Park di reliquie e scheletri umani, che rapidamente si inceneriscono, mentre furoreggia il rock acido del mozartiano Don Giovanni, A cenar teco m’invitasti. Poi i resti si mischiano alla polvere della spiaggia e la colonna sonora torna a essere vento silenzioso. Salus Deo nostro, qui sedet super thronum.
Sul trono in mezzo al Presepe, Fellini dirige lo spettacolo. Ha l’espressione di chi è attraversato da pensieri incerti, indeterminati, che si accavallano nella mente. E che ha un gran disordine là dentro. Le figure di sabbia che vorticano davanti a lui lo riportano alla gente di Ariminum, quella Ariminum imbevuta di nostalgie, di rimpianti, di ricordi, anche inventati, e di sogni erotici sfrenati, quella Ariminum per lui molto più vera di quella reale.
Prova a concentrarsi sulla figura da lui più amata, il pagliaccio, su cui ha costruito tanti personaggi in base alla dialettica tra il clown Bianco e il clown Augusto. Durante l’inaugurazione del Presepe di Sabbia, il Maestro aveva tenuto sul tema una delle tante lezioni ex cathedra che impartiva agli apostoli suoi seguaci obnubilati dalla vodka, per l'occasione shakerata con ghiaccio e vin santo: «il primo è il dr Jekyll, il Mr. White di Breaking Bad, la figura apollinea che impone regole ferree alle pulsioni che agitano l'individuo; il secondo ne costituisce l’ombra, il dionisiaco Hyde, il luciferino Heisenberg televisivo, che si ribella alle norme del clown Bianco».
Fellini ha in testa una sceneggiatura, con il Roc Casanova incapace di gestire le pulsioni dell’Es e il JubJub nelle vesti paterne dell’inflessibile Super–Io… Nel film che gli si dipana in mente il Roc assume forme diverse che si inseguono una dopo l’altra: sovrano, impiccato, albero Bodhi, bottiglia di assenzio, cristallo, fiamma, ma nulla è visto attraverso il sentimento che dà le prospettive, le lontananze, i colori. Non è un affresco, ma un arazzo, c’è il senso della piattezza, tutti i punti sono uguali, ci si deve allontanarte un po’ per cogliere la raffigurazione… Ma non riesce a mantenere la concentrazione, la sua fantasia si disperde in mille rivoli: perché, oltre a quella del pagliaccio, Fellini ama tutte le figure che, «anche per Starobinski e Tim Burton» aveva predicato il Maestro «fanno parte di questo archetipo: i saltimbanchi, gli acrobati, gli equilibristi – anche quelli che vivono camminando sul filo della diversità: i clochard, gli emarginati, i poeti, i dropout della Fortezza Bastiani. In una parola, il circo».
È facile capire il motivo profondo dell'interesse viscerale verso la culla di tutte le forme di intrattenimento popolare: già le antiche tribù avevano lo sciamano che mimava, ballava e saltava in uno spazio aperto, ai limiti del quale gli altri sedevano in cerchio. Il circo era nato allora – “uno Zampanò è già esistito”, aveva scritto l'apprendista del Barman nella tesi con cui aveva conseguito la Laurea in Teologia Teatrale – “in rappresentazioni sacre che hanno provocato la nascita di altre forme drammaturgiche, dove il sacro è andato edulcorandosi nel profano, ma riemergendo a tratti come un fiume carsico, di cui il Mistero, l’Assoluto, la Verità e la Bellezza sono le sorgenti perpetue: compreso il cinema primitivo, il cosiddetto cinéma de la foire, che aveva trovato ospitalità nelle piazze e nelle fiere. Lo ha mostrato René Clair ne Il silenzio è d’oro e poi Woody Allen ne La ruota delle meraviglie: non era sotto i tendoni dei padiglioni che si proiettavano i primi film, interpretati da guitti e da clown?”.
Ma questi precetti, queste parabole e queste epifanie si confondono fra loro. Lo sforzo di raccogliere le idee gli provoca lo smarrimento suscitato da uno spettacolo di ombre cinesi proiettate da un regista pazzo su un lenzuolo sporco in un locale molto fumoso. Quel regista era lui stesso?
Un raggio di Sole che fa capolino dal mare lo investe sulla fronte. Nel lobo frontale si creano onde luminose e circolari. La Verità, ammette, è che non ho mai voluto dimostrare un bel niente. Non ho messaggi per l’umanità. Mi spiace, mi spiace proprio…, si rammarica. Il cinematografo è solo un giocattolo. Un meraviglioso passatempo. Ma non c’è né salvezza, né dannazione, né martirio, né redenzione in esso…
Dagli altoparlanti della Publiphono si leva l’Aria malinconica scritta da Nino Rota per Amarcord, l’immortale Avlé che tu fos a cvè, interpretata, nella versione italiana, dalla voce limpidissima del JubJub:
«Il pazzo è sulla spiaggia.
Il pazzo è la spiaggia.
Ricorda quando giocava nel talassico maniero.
Bisogna tenere i pazzi sul sentiero.
Il matto è nella mia testa
Il matto è la mia testa.
Affili i denti, mordi, fai la trasformazione
per risanare la mia costituzione.
Accosti la porta, poi la chiudi con cura;
e butti via la chiave della serratura.
C’è qualcuno nella mia testa, che ne fissa le mura:
ma non sono io – io vago nei boschi del cinema e della letteratura».