Il marciatore – o “Il Cercatore d’Oro”, per la vulgata ariminense – superò un gruppo di tre donne seminude con la schiena curva, intente a raccogliere vongole, cozze e ricci dispersi sul litorale dopo la tempesta. I visi erano nascosti, ma a metterne in rilievo le sottovesti stracciate, la pelle rovinata dalla Tramontana, le mani arrossate e gonfie, i sederi felliniani provvedeva la luce impietosa della Luna piena – per quanto a tratti oscurata da sciami di nubi irrequiete e da uno stormo di pipistrelli che puntava al cuore del satellite: proprio come in un film di Batman, se non fosse stato per l'anormale candore dei volatili.
La scena si presentava con la vividezza di una poesia silenziosa e la poeticità di un quadro parlante. Possedeva la potenza dell’assedio di Tebe e della morte di Meneceo; dei cori delle Baccanti, di una caccia al cinghiale, delle Favole esopiche; del giovane Achille abbracciato al centauro Chirone, di Narciso e la sua immagine riflessa nell’acqua, di un Satiro ubriaco circondato da ninfette eccitate. La stessa, in un guscio di noce, che aveva ispirato a Leonardo da Vinci il celebre motto: "la pittura è una poesia muta, la poesia una pittura cieca".
Uno dei compari, usciti dalla Fortezza Bastiani a prendere una boccata d’aria, domandò: «Chi diavolo sono?». Il Maestro provvide a fornire il ragguaglio necessario a soddisfare quella curiosità, sia pure con inusuale sinteticità: «Cercatrici di Alimenti».
Non si diffuse ulteriormente sul tema perché venne attratto da un reggiseno con i gancini spezzati gettato sulla spiaggia. Svolazzava qua e là, spinto dal vento, che stava montando. Raccolse l'indumento. Lo avrebbe riposto in un cassetto segreto, accanto a ritagli di giornali hardcore, tubi, pezzi di gomma trovati per la strada. Insieme a vibratori di seconda mano spalmati di catrame, scarti e residui organici di ogni genere. Gli sarebbero serviti per costruire sculture o teatrini con figure visionarie. I denti di un rastrello erano la potenziale corona di un re in lattex. Feltri cuciti su sacchi di tela preannunciavano stemmi araldici, dai toni accesi, di regine transessuali. Corde rubate sulla banchina del porto sarebbero cresciute formando le fruste di sadici Mangiafuoco. Reti da pesca scartate, salvaslip abbandonati, preservativi bucati e persino fondi di caffè si sarebbero trasformati in berretti conici con campanellini sulle punte, papillon, manette, cockring di clown e pagliacci. Un rotolo di fil di ferro sarebbe diventato il cagnolino infoiato attaccato alla gamba lignea di una ballerina zoppa dal tutù fatto di carta igienica parzialmente usata. Una grattugia arrugginita si sarebbe reincarnata in una divinità primordiale – Ganesh, il dio dalla testa di elefante con una sola zanna, ventre pronunciato e quattro braccia, che sodomizza un topo. Con una serie di fogli stratificati di rame, tagliati al laser, avrebbe edificato un tempio pagano, dove mini-androidi si sarebbero esibiti in una coreografica gangband sceneggiata da una rete neuronale al ritmo di (I can't get no) Satisfaction suonata dai Devo. Avrebbe intitolato lo spettacolo Ariminum Circus, anche se il Capitano, melvilliano di ferro, insisteva per il più icastico Typee. Il JubJub propendeva per Belleville, o La scuola di libertinaggio.
«Sono le mie ragazze che si danno da fare». Earnest, una volta tanto, non dissimulava il proprio orgoglio per le tre donne chine a terra, in una posa classica, degna della Pinacoteca di Filostrato. O del Kamasutra, stando al patetico miscuglio di malizia, libidine, stupore e tristezza che accese la brutta faccia di Tim, mentre farfugliava: «Though ravenous, taught to abstain from what they brought».
«Cosa hai detto? Sai che l’ariminense non lo capisco». Il Piccolo Ed era infastidito da ogni forma dialettale.
«Benché fameliche, sono ammaestrate ad astenersi dal mangiare quel che portano» tradusse il Pescivendolo.
«Sui corpi scorgo, se non erro, uno strano intrico di arabeschi e disegni grotteschi» intervenne il Capitano. Aveva visto giusto. I geroglifici erano opera del vecchio futurologo della pineta. Per mezzo di quei segni aveva tatuato sulla loro pelle un mistico trattato sull’arrivo dell’Armageddon, firmandosi Federicus dei Fellonis. Cosicché quelle donne erano enigmi da spiegare, i misteri dei quali però nessuno sapeva leggere. Erano destinati a perire insieme alle pergamene viventi su cui erano tracciati, restando insoluti fino a quella fine del mondo che annunciavano. «Li trovo orrendi» aggiunse.
«Chi non ama i tatuaggi si dimostra ingiusto sia verso la Verità sia verso la Sapienza che è propria dei poeti» disse Earnest, lasciando come di consueto gli amici un po' interdetti.
Ci fu quindi una pausa imbarazzata prima che il Piccolo Ed chiedesse: «E va bene, ma chi è una Cercatrice di Alimenti?».
«Una femmina che ricerca, stabilisce e mantiene rapporti con l’unico scopo di sfamarsi, ottenendo cibo a spese di qualcun altro» spiegò il Maestro.
«E la differenza con le altre donne... dov’è?».