Dopo il pranzo in refettorio andiamo a giocare nel boschetto dietro la scuola. Mica abbiamo paura, anche se lì gironzola Ugo Paciugo: un contadino, o un assassino, o un contadino e assassino – nessuno lo sa per certo.
Remigio si arrampica sull’albero più alto, grida: “Per la Nina, la Pinta e la Santa Maria! Tigrotti di Mompracem, all’arrembaggio!”
“All’arrembaggio!” ripetiamo io e Max, impegnati ad appendere il cartello a un ramo. ‘Vietato l’ingresso ai gaglioffi di quarta A. Tutte le femmine possono entrare. Anche quelle brutte.’
Max è guercio da un occhio, ma ha una bella calligrafia. Beato lui che porta gli occhiali con la benda su una lente; ieri me li ha prestati perché anch'io volevo fare il pirata in aula: la maestra, prima di sgridarmi, mi ha colpito con le nocche sulla testa che ancora mi fa male.
“Secondo te è una frase giusta?” dico.
Max smette di ciucciazzare il gambo di acetosella, l’occhio buono si muove a scatti a destra e sinistra. “Cacchiarola, sì. Mi piace la parola gaglioffi, non come pappafico ma quasi. Poi lo sanno tutti che quelli di quarta A sono gaglioffi.”
“No, dicevo… ”
“Cicciobomba muoviti. Se vuoi essere dei nostri devi arrivare fin qua,” fa Remigio da lassù.
Ottavio, avvinghiato a un tronco, cerca di arrampicarsi, sbuffa spompato e dice che Cristoforo Colombo non c’entrava un tubo con i pirati.
Remigio scende giù alla velocità di un’anguilla, si piazza con le mani sui fianchi. “Cicciobomba, non è che puoi stare qui a dire gne gne che non è così e non è cosà, sei un secchioncello, tu non c’entri un tubo con noi, non è che sei uno spione?”
Ottavio molla l’albero. “Macché spione. Se vuoi ti faccio i compiti… ”
“Come, ti?”
“Vi faccio i compiti di matematica fino alla fine della scuola se mi prendete.”
Remigio si strofina il mento. “Pirati della malora che ne dite?”
Io e Max alziamo il pugno con slancio. “Sì, capitano!”
“E allora sia. Io Remigio nomino Ottavio cicciobomba pirata membro della tana di Ugo Paciugo.”
“Patto dei tigrotti ora,” dice Max.
Sputiamo ognuno sul proprio palmo e li stringiamo tutti insieme. Sodalizio da pirati. Remigio la settimana scorsa aveva proposto il patto di sangue: con una lama e via; quasi svenivo al pensiero, gli ho detto che ero anemico e gli attaccavo l’anemia: non se n'è più parlato. Facciamo un girotondo – in quattro stavolta –, e cantiamo la nostra filastrocca. “Uugo paciuugo bagnaato nel suugo.”
La maestra chiama: “Tutti in fila per due.”
Ci incamminiamo lungo il viottolo che dalla collina scende verso la casa di Caterina. Io sto con Max, Remigio saltella in lungo e in largo, la maestra lo richiama cento volte poi smette e dice che non ne può più.
“Voglio i capelli lunghi come Sandokan della TV,” dico a Max, “così Bea si innamorerà di me, diventerà la mia perla di Labuan.”
“Sei cotto,” Max scuote la testa in avanti per indicarmi proprio Bea e Nilde, parlottano e si voltano, fanno risolini, aspettano che le raggiungiamo.
Bea mi si avvicina. “Che capelli accarciofati hai oggi, potresti accompagnare Nilde? Rimango io con Max.”
Ci resto un po’ male ma dico: “Sì sì.” Cammino con Nilde, dondoliamo le mani avanti e indietro.
Lei fa una specie di sorriso, il suo apparecchio per i denti brilla. “Mia madre dice che costa quanto un'automobile, ma il dentista ha promesso che avrò i denti come quelli di un’attrice. Io però da grande voglio fare la falegname, o la nobel per la fisica. E tu?”
“Beh, io voglio fare l’astronauta o il pirata,” lei si aspetta qualcos’altro, “oppure…”
“Ho visto un documentario su Marì Curì, tu puoi diventare mio marito Pierr Curì.”
Mica lo so chi cavolo sono questi due Curì, e di sposare Nilde non mi passa neanche nell’anticamera della cucuzza. Mi volto indietro: Max e Bea sono a braccetto, parlano e ridono.
Nilde mi strattona. “Saremo una coppia di nobellizzati,” guarda la maestra e continua a voce bassa, “quella non si sposa, ha sempre la bocca in giù. Una che ha la bocca in giù anche quando ride non lo trova il fidanzato.”
Cerco qualcosa da dire ma per fortuna arriva Remigio, ruggisce e fa: “Io sono il tyrannosaurus rex. Il dinosauro più forte!” Corre avanti ruggendo contro tutti.
Nilde mi chiede: “Tu che dinosauro sei?”
“Stegosauro,” rispondo.
“Ma è erbivoro.”
“Mi piacciono le placche che ha sulla schiena, con quelle nemmeno il tirannosauro riesce a vincere,” le spiego.
“Ah,” fa lei. “Lo senti l’odore di campagna?”
“È letame.”
“Per me è un buon odore, per Bea è terribile, dice che Caterina puzza e anche i suoi vestiti.”
Mica voglio invischiarmi nell'argomento letame, quindi sto zitto.
Tutt’intorno all’aia della casa di Caterina ci sono tante persone, parenti di sicuro. Hanno il tipo di vestiti delle altre volte, ma sembrano più in tiro: gli uomini con il cappello di paglia nuovo; le donne con il fazzoletto pulito in testa; i vecchi, seduti sulle sedie, con le scarpe lucide. Però sono di razza contadina: le orecchie troppo grandi, i denti troppo pochi, le mani sgualcite. Mica sono come noi di città.
Il padre di Caterina, al centro dell’aia, ha in mano un arnese nero e piccolo; al suo fianco il maiale con un fiocco rosso legato alla coda per l’occasione.
“Disponetevi in semicerchio bambini,” ordina la maestra, poi al padre di Caterina: “Siamo pronti.”
La sposa del maiale tarda – due galline sbucano da dietro ai vecchi –, chissà se hanno messo un fiocco anche a lei, o il velo, o un fazzoletto in testa.
Il PUM rimbomba. Arriva, arriva la sposa, i botti, la festa inizia. La maestra applaude, i contadini applaudono, tutti applaudono. Cioè? Cioè…! In mezzo a quelle mani che battono e bocche che si aprono non è che uno capisce subito quel che succede; c’è la festa ma mica lo sai che non è quella che credevi. E ti ritrovi lì, con Nilde che dice: “Cos'hai fatto? Hai una faccia da baccalà.”
Il padre di Caterina gongola soddisfatto, dall’arnese nero esce fumo. Il maiale è accasciato a terra a zampe larghe. Remigio grida: “Il porco è morto!” balla sgangherato, si batte la mano sulla bocca e fa il verso dei pellerossa. Ottavio imita la stessa danza ma ha la pancia che traballa. Remigio lo indica a braccio teso. “Il porco è risorto!” Ridono, i contadini. Ottavio diventa paonazzo, ruggisce più feroce di un tirannosauro e si fionda verso Remigio, ma la maestra li agguanta per la collottola e dà uno scappellotto a tutt’e due. “Adesso state fermi qui!”, li afferra per i polsi, uno a destra e l’altro a sinistra.
Il maiale ha gli occhi aperti: è più guercio di Max; dalla fronte gli scende sul naso una riga rossa che a terra si divide in tre riguzze, la stessa forma del rastrello che porto in spiaggia per giocare.
“Porco sei morto,” sussurro, e gli faccio la lingua.
Il rastrello però ce l’ho impigliato nella pancia o nel petto, o chissà dove, non va né su né giù.
“Tu lo sapevi?” dico a Nilde, “Perché io no? E lui? Lui lo sapeva? Il maiale, dico, lo sapeva?”
“Se lo sapeva scappava di certo, c’hai proprio il cervello di uno stRegosauro.”
Provo a sorridere, a tornare normale, ma mica mi riesce .
Il padre di Caterina racconta di zamponi, mortadelle, cotechini e prosciutti. La maestra dice di ringraziare, ci mettiamo in fila per tornare a scuola. “Prego,” dice il padre di Caterina mentre prende due coltelli appuntiti molto grandi.
È vero: i contadini sono una razza di assassini.
Lungo la salita Nilde stacca la sua mano dalla mia. “È sudaticcia, mi fa un po’ schifo.” Mi strofino il palmo sul grembiule, ma Nilde si allontana, raggiunge Bea e Max e li prende sottobraccio.
Nel prato della scuola vado sotto alla quercia grande, mi riempio le tasche con le ghiande che fino al giorno prima raccoglievamo per il maiale di Caterina.
È solo un animale, mamma verrà a prendermi alla fermata dello scuolabus, mi chiederà “Tutto bene?” e io risponderò “Sì sì.” Come sempre.
Neanche me ne accorgo che Max si avvicina, mi fa : ”Oh, c’hai una faccia… ”
“Da gaglioffo pidocchioso, lo so.”
“Proprio.”
Mica lo capisco se mi fa l'occhiolino. Andiamo a prendere la cartella e saliamo sullo scuolabus. Ottavio e Remigio sono seduti vicino alla maestra, Nilde e Bea stanno lì picci-picci. Mi rannicchio sul sedile con le ginocchia appoggiate allo schienale di fronte, canticchio: “Ugo paciugo bagnato nel sugo.”
“Sì sì tutto bene,” risponderò. Sono Sandokan la tigre della Malesia, non me ne deve fregare un fico secco di niente di un maiale.
Alla fermata mamma mi abbassa le occhiaie con il pollice, fa la solita domanda ma ho la gola bloccata, non rispondo.
“Allora?” insiste.
Riesco a dire: “Sì sì tutto bene, il porco è morto,” poi vomito maccheroni e compagnia bella, tutto sui suoi piedi, ma il rastrello mica è uscito.