La terra era ghiacciata e la pala non riusciva a penetrare.
C’era un pezzo di legno scuro che ancora emergeva, come una nave che non ne voleva sapere di affondare.
“Anche da morto deve rompere le scatole” pensò il figlio, mentre il tizio delle pompe funebri saliva sulla pala per rompere il ghiaccio. Il figlio portava gli occhiali da sole per nascondere gli occhi asciutti, pensava potessero offendere gli eventuali parenti o amici di suo padre. Voleva schermarsi dai sensi di colpa che gli avrebbero probabilmente scagliato addosso. E invece, accanto a lui c’era soltanto la sorella, con un cappotto colorato di lana cotta e un berretto in stile andino.
“Ma non potevi almeno vestirti di nero?” le disse
“Lo sai che non ho vestiti neri, che avrei dovuto fare, spendere dei soldi per una cerimonia che dura 15 minuti?”
“Hai ragione anche te”
Si incamminarono verso la cinta muraria della Força Vella. Da lassù, il campanile della Cattedrale di Girona e la torre gotica della Basilica di Sant Feliu si ergevano pallidi sopra la lunga distesa rossa dei tetti. Sembravano due orfani isolati che, con una punta d’invidia, osservavano le famiglie di mattoni unite per sempre dal cemento. Sullo sfondo, le cime più lontane dei Pirenei erano spruzzate di bianco, come la barba di un vecchio eremita che vi si fosse rifugiato per schifare la mondanità. Un po’ come aveva sempre fatto il padre che avevano appena seppellito.
“Io non l’ho mai capito papà” disse la figlia, contemplando le cime innevate.
“Non c’è nulla da capire, era uno stronzo”
“Dai, Paolo...”
“Dai Paolo, cosa? In 45 anni di vita mai una volta che mi abbia dimostrato un po’ di affetto e poi, qualsiasi cosa facessi non andava mai bene! Ma sai cosa mi fa più rabbia, Laura? Che adesso mi devo sentire in colpa io perché non mi sento in lutto neanche un po’! Tutti a farmi le condoglianze, ma a me non fa né caldo né freddo, e dopo però il figlio insensibile sono io, capisci?”
“Lo so, ma non ha senso fare questi discorsi ormai. Abbiamo esaudito le sue ultime volontà, l’abbiamo seppellito a Girona con quello strano anello d’argento che teneva nel cassetto. Noi siamo a posto con la coscienza”
“Che poi, quell’anello non era mica la fede della mamma, chissà cosa combinava quello là...”
“Paolo, ormai sono morti entrambi. Occupiamoci piuttosto dell’inventario delle cose di papà e poi torniamo in Italia alle nostre vite”
“A proposito, io devo tornare a Milano prima del previsto, hanno anticipato una riunione...”
“Ecco, lo sapevo, sei sempre il solito! Ciò significa che mi devo occupare io da sola dell’inventario, vero?”
Paolo sorrise, giocando con il pompon del berretto della sorella.
Il giorno seguente, Laura si recò all’indirizzo che il padre aveva indicato nel testamento. Aveva immaginato la casa da scapolo di suo padre come un posto consumato dall’umidità e dall’oblio, e perciò si stupì quando la chiave girò senza intoppi nella serratura perfettamente oliata. Era una piccola casa con le pareti di pietra e come unico arredamento c’erano un tavolo, un divano letto, un armadietto e una cucina ben attrezzata. Laura aprì la credenza e vi trovò caffè, tè e una confezione di biscotti chiusa con una molletta del bucato. Aprì la tapparella verde bosco per respirare. Il fiume Onyar scorreva spensierato dopo la siccità estiva e i turisti si accalcavano sul Pont de les Peixateries Velles per fotografare quelle case colorate, nate a ridosso del fiume, che sembravano tante donne vanitose che trascorrevano le giornate specchiandosi sull’acqua.
“Paolo, ti disturbo?”
“No, dimmi, sto mangiando un panino al volo”
“La proprietà che papà ci ha lasciato è una di quelle case pendenti sul fiume, ti ricordi che le abbiamo viste insieme ieri?”
“Davvero? Fantastico! Almeno qualcosa di buono ci ha lasciato il vecchio, varrà sicuramente una fortuna! Ascoltami bene adesso, ti dico come faremo: vai al Comune di Girona e ti accerti che non ci sia qualche clausola strana per cui magari adesso la casa fa parte del patrimonio architettonico della città, in quel caso saremmo fregati. Se è tutto ok, allora dobbiamo fare la quotazione immobiliare. Vedrai che ci ricaviamo un bel po’ di soldi!”
“Sì, sì”
“Laura, tu stai bene?”
“Certo, non preoccuparti”
“Ok, torno alla riunione, tienimi aggiornato”
Laura gettò il cellulare sul divano e si mise alla finestra. Le pareti gialle della casa di suo padre si riflettevano sull’acqua e lì il fiume ne inghiottiva i contorni e ne deformava le prospettive, finché soltanto il giallo rimaneva come unica prova di quell’identità. Il riflesso non era più una casa.
Laura si chiedeva se anche l’immagine che per tutta la vita aveva avuto di suo padre non fosse che un riflesso. Forse non avrebbe mai saputo chi era stato veramente suo padre, se l’uomo che aveva vissuto sotto lo stesso tetto con loro o l’uomo che veniva ancora lì, in quella casa, a loro insaputa.
“Pensavo tu non avessi segreti con me, papà”
Si avvicinò all’armadietto, l’unico elemento dell’intimità di suo padre che non aveva ancora violato. Si trattenne per un attimo, presa da quel misto di pudore e timore che tutti i figli hanno prima di scoprire chi fossero una volta le persone che ora chiamano “genitori”.
Aprì l’armadietto e trovò una collezione di venticinque CD, uno per anno a partire dal 1967, del cantautore catalano Joan Manuel Serrat. Prese il CD che riportava il suo anno di nascita, il 1971. Sulla copertina, il Mar Mediterraneo faceva da sfondo alla sagoma sfumata di Serrat, con i capelli sciolti secondo la moda degli anni ’70. Laura si accorse che non sapeva nemmeno che musica ascoltasse suo padre. Estrasse il CD dalla custodia e, stava per collocarlo sul lettore quando un foglio scivolò per terra. Laura lesse poche righe, infilò alla rinfusa tutta la collezione in borsa ed uscì di casa trattenendo le lacrime.
***
La Rambla de la Llibertat aveva subito l’invasione delle luci di Natale. Lei faceva lo slalom tra tutta quella felicità in offerta per arrivare all’unico posto in cui, a suo avviso, la felicità era invece tangibile tutto l’anno: il negozio di CD e vinili. La accolse il baccano degli Alice in Chains e d’istinto storse la bocca, mentre il commesso come al solito le faceva cenno di salire le scale. Saliva i gradini aggrappandosi alla ringhiera e facendo piccoli passi, nel frattempo l’occhio le cadeva sui ragazzi che giravano le copertine dei dischi con le unghie laccate di nero e sulle ragazze con orecchie e nasi attraversati da strani affari metallici. Come sempre, sorrideva pensando a quando era sua madre a storcere la bocca guardando come si conciava lei. Arrivata al piano di sopra, aveva sempre l’impressione che le note metalliche ed aggressive che risuonavano al piano terra si spogliassero della loro durezza ed evaporassero verso l’alto, leggere ed eteree.
Paco aveva messo “Father and son” di Cat Stevens, catapultandola nei suoi anni ’70, quando Franco era morto e la voglia di vivere sgorgava persino dai tombini di quella città. Ora soltanto lì, nel secondo piano di quel negozio, la musica creava per lei il suo posto nel mondo.
“Bea, che piacere rivederti!”
“Eccomi qui come tutte le settimane, Paco”
Le dita di lei scorrevano i titoli che conosceva ormai a memoria, li sfiorava come se fossero bambini scalpitanti e ad ognuno di loro prometteva “Vengo a prenderti il mese prossimo”. Ad un certo punto si bloccò e guardò Paco stupita.
“E questi?” gli chiese.
“Li ha portati ieri una signora, sembrava volesse sbarazzarsene perché me li ha mollati qui e non ha voluto nemmeno negoziare il prezzo. Mah, la gente è pazza”
“Ma è la collezione completa?”
“Sì, sono 25 CD dal 1967 al 2002. Li ho ascoltati uno per uno e si sentono benissimo, non hanno nemmeno un graffio”
Bea cominciava ad accarezzare i dorsi di quei nuovi 25 bambini scalpitanti, a cui fare la solita vana promessa del “Verrò a prendervi il prossimo mese”, quando Paco le disse “Te li lascio tutti a 35€, me li paghi quando puoi. So che non possono essere in mani migliori”.
E così, lei uscì dal negozio portandosi in un sacchetto un po’ del suo posto nel mondo. Scelse il CD che corrispondeva all’anno di nascita di suo figlio, 1971. “Mediterraneo”. C’era in quell’album la sua canzone preferita di Serrat, «Lucía». Non ricordava bene il testo e tirò fuori il libretto. Notò che alcune strofe erano state sottolineate a matita da qualcuno:
“Non c’è nulla di più bello / di ciò che non ho mai avuto / nulla di più amato / di ciò che ho perso [...] Se un tempo ho amato / Se un giorno, dopo aver amato, amai ancora / è stato per amore a te, Lucía.../ Il tuo ricordo è ogni giorno più dolce / l’oblio si è portato via solo la metà / e la tua ombra ancora si corica con me nel buio / tra il mio cuscino e la mia solitudine “.
Mentre leggeva, le scivolò sul grembo un foglio piegato in quattro.
La mattina seguente Bea, sfregandosi le mani per il freddo e la trepidazione, mise il foglio in una busta e lo spedì all’indirizzo che vi era citato: 23, Rue du Docteur Blanche, 75016, Parigi, Francia.
***
Parigi, 16 dicembre 2002
Mio caro Miquel,
Devo dirti la verità, quando ho visto il francobollo di Girona sono rimasta sorpresa. Era un anno ormai che non ricevevo una tua lettera. Avevi desistito e non ti biasimo. Non ho mai risposto né alle tue lettere né ai tuoi inviti a raggiungerti nella tua casa pendente sull’Onyar. Ciò che non sai, è che da sessant’anni porto nell’anulare della mano sinistra – perché la destra non ti è mai piaciuta – l’anellino d’argento che ci siamo scambiati quando sono partita.
Sono una vigliacca, Miquel. Ho attraversato la frontiera per salvarmi ma mi sono portata la guerra civile dentro. Ho letto tutte le tue lettere. So che hai sposato un’italiana, so dei tuoi figli Paolo e Laura e so che non hai mai smesso di amarmi. Nemmeno io. Ma sai, dopo quell’esilio, ad ogni possibilità di cambiamento che mi si è presentata nella vita, sono scappata come se ci fosse ancora il coprifuoco. Ho nascosto la mia identità come se ancora fosse un pericolo mostrarla. E non ho vissuto. Ho dato un figlio a Jean-Philippe senza molta convinzione e non ho mai smesso di pensare a te. Ma avevo paura di rivederti con gli occhi cinici della vecchiaia, volevo conservare l’immagine di te ragazzino, con le dita ossute e le unghie sporche, che infili l’anellino d’argento nel mio anulare come se avessimo tutta la vita da passare insieme.
Ho sbagliato tutto, Miquel. Sto per compiere 80 anni e solo adesso mi sono accorta che Franco è morto.
Voglio rivederti. Ti prometto che non attraverserò più la frontiera.
Tua per sempre,
Lucía