Incontrarsi al tavolino di un esterno bar sconosciuto - luogo neutrale, ampio, sotto un cielo sfacciatamente blu. L’inferno degli agorafobici.
Mi era sembrata una bella idea. Uscire dall’apparenza, dall’inganno virtuale, addirittura dalla nostra unicità di poeti. Pensavo che ci saremmo comportati come amici, meglio, che ci saremmo riconosciuti amici - liberi dallo schermo e dalla finzione. Mi incuriosiva il genere - l’uso del nickname camuffa e protegge, dunque mi chiedevo: chi mi troverò davanti, un uomo o una donna? Magari un transgender.
Saremmo stati esposti, senza la scrittura a fare da tramite, da illusorio legame. Saremmo stati vita e carnalità, espressione di corpi e non di menti. Avremmo - come posso dire - gonfiato i nostri esseri, dando loro quella fisicità tangibile. Corpi, insomma.
Sei un uomo, questa è la prima scoperta.
La seconda scoperta è che sei Ken, e io Barbie. Lisci, carne saldata là dove fino a oggi immaginavo cose. Due corpi - sì, la corporeità l’abbiamo ottenuta - due bambole perfino belle appoggiate su queste sedie, private di ogni illusione di amicizia, di amore, di erotismo.
La cameriera ucraina si avvicina per apparecchiare, chiede se siamo due. Certo, questo è un dato di fatto. Siamo due a questo tavolo, una somma: due corpi distinti, due menti, due cuori pompanti.
Ti chiedo cosa stai leggendo, e non mi interessa. Neanche ascolto la tua risposta. Mi chiedi cosa sto leggendo io.
Come possiamo andare avanti in questa modalità, educati e composti e conoscenti di niente.
Non abbiamo una storia cui attingere conforto per un momento così - una storia comune, intendo, un serbatoio di ricordi, oppure, che ne so, una genetica che ci unisca in vincoli incomprensibili. Perché mi sorridi guascone, e sfoderi una bellezza che sappiamo entrambi transitoria e dunque, alla fine, non autentica? Autentico è solo ciò che resta. Dimmi le parole, allora, fammi sentire un formicolio alla nuca, diventa di nuovo puro spirito. Oppure torno a casa.
Cos’è quest’aria pura, così respirabile. Ho bisogno di quattro pareti intorno, di uno schermo retroilluminato, di parole che colmino ogni spazio tra me e l’altro, che potevi essere tu, e lo eri quando ci lasciavamo andare a finzioni leali (oh, credevo che fossero finzioni!) e avremmo potuto definirci pure anime - pura anima, anzi, che la dualità era annullata. Voglio l’aria pesante di fumo e densa di parole, voglio sorprendermi per rime che costringono il torace, voglio lacrime versate su racconti senza speranza. Le Barbie non piangono, hanno sguardi fissi e palpebre che non si piegano sotto il peso del mascara.
Queste schegge di azzurro che ci cadono addosso senza ferirci sono la terza sorpresa: è anch’esso falso - non il cielo, dico: il colore. O forse anche il cielo esiste solo negli occhi dei poeti: tutt’intorno e sopra di noi c’è solo aria, trasparente o biancastra, che qualcuno dipinge ogni mattina. Una tonalità di blu quotidianamente più intensa, perché la menzogna dà assuefazione.
Ora che si va scolorando mi alzo, ti porgo la mano. E per un attimo ti riconosco, quando indichi col mento i nostri bicchieri ancora mezzo pieni e dici:
Poteva essere assenzio.
L’impronta rossa sul bicchiere dello spritz è oscena, ma non vuol dire che non sia poetica.