Decine di cappotti in fila: fuori dal portone d’ingresso o incastrati sui pianerottoli tra una rampa e l’altra delle scale.
La sua prima, fallimentare house-viewing gli aveva lasciato un’unica certezza: a Berlino ascensori e piumini non esistono.
Kreuzberg. Non riusciva ancora a pronunciarlo ma aveva deciso: doveva abitarci. In quel quartiere potevi scendere per strada
al mattino e incontrare un gruppo di drag queen con il trucco della sera prima sciolto sul viso, in piedi attorno al tavolino
alto di un kebabbaro turco che le guarda divertito. Sullo sfondo della scena, in ordine sparso: due senzatetto ubriachi
che sbraitano contro il governo, una famiglia musulmana diretta alla Moschea di zona, coppie hipster che bevono
Chai latte take-away, un indeterminato numero di freelance che, il Macbook sotto braccio, si infilano nei bar pieni
di piante rampicanti e con il wi-fi gratuito a mandare dieci mail e chiamare la giornata.
Kreuzberg era perfetta: ma lui non aveva né un lavoro, né un Macbook. E il Chai Latte non sapeva neanche cosa
fosse, gli sembrava un cappuccino lunghissimo e l’odore di cannella gli faceva venir la nausea.
Giuseppe aveva venticinque anni e il tedesco non lo aveva mai neanche considerato, prima di decidere, qualche
mese prima, di andarsi a cercare una vita proprio lì. Masticava l’inglese, nonostante fosse nato e cresciuto a Carloforte.
In prima liceo aveva già diversi “amici virtuali” sparsi per il mondo, con i quali parlava di ciò di cui si parla
tra adolescenti: sesso, come dire ai propri genitori che era omosessuale, sesso e viaggi nel cassetto, di quelli
che “prima o poi”. Così, dopo una laurea in Lettere conseguita con molta, moltissima flemma, aveva deciso.
Perché no, si era detto. C’erano già tre ex colleghi a Berlino che non facevano altro che dirgli quanto fosse fantastica
e quanto poco costasse lì la vita. I suoi risparmi gli avrebbero consentito di vivere per i primi mesi, cercare un posto
decente in cui sistemare il suo fagotto, che in realtà era una valigia super minimal, senza loghi a vista, color
tortora. Il giorno in cui arrivò era il due di Marzo: appena scese dall’aereo gli si congelò la faccia e andò a cercare in valigia
i guanti che sua madre aveva insistito portasse: fidati gli ripeteva, fidati che hai freddo. E se hai freddo alle mani non
puoi fare niente. Quei guanti orrendi neri con le estremità “touch screen” di un colore diverso.
Era grigio, il colore, come il cielo che gli stava dando il benvenuto e che sarebbe sparito in meno di mezz’ora.
Passi il buio, passi il gelo, passi il cibo, avrebbe scoperto. Ci sono tante altre cose. C’è la
gente, una fantastica, variegata moltitudine. C’è l’arte, ovunque, tanta, troppa, sui muri e sui soffitti, gallerie ogni due metri
e di due metri quadri, c’è la droga e ci sono tutti i tipi di musiche, religioni, e orientamenti sessuali, ci sono il rumore
e il fermento di tutte le voci del Mondo. Ma, avrebbe constatato con un certo stupore, a Berlino manca il mare. Il Mare. Non era stupido, ci arrivava da solo anche se la geografia non l’aveva mai studiata, a Berlino manca il Mare nella dimensione di un concetto che non puoi tradurre. Ci avrebbe provato poi a spiegarlo ma era così difficile spiegare il Mare. Il sole lo puoi spiegare, la terra, perfino
la guerra o l’amore ma il Mare non si spiega. E se manca e non lo sai spiegare allora è grave. Il vento sì. Lo aveva percepito fin dai primi giorni perfino ad Alexander Platz, che lui si aspettava fosse una piazza e invece era soltanto un crocevia di centri commerciali.
Era tutto vero e tutto una bugia: la lingua era ostica, impronunciabile, eppure era bastato un corso per acquisirne i rudimenti e farsi capire. Il cibo era grasso e pieno di salse ma in ogni angolo si trova un vietnamita che costa niente e sembra sano perché “è tutto al vapore”.
Anche l’insegnante di tedesco era di origine vietnamita. Insomma Berlino aveva le sue pecche ma i vietnamiti salvavano sempre la situazione. In due mesi aveva trovato casa e lavoro. Non era un granché, la casa: una sorta di monolocale con un bagno cieco, ma il pavimento era in legno e sapeva di caldo. Aveva iniziato a lavorare a Maggio, mentre i primi germogli spuntavano sui rami e i Berlinesi
facevano a gara a chi sarebbe stato il primo a mangiare all’aperto e chiamare primavera. Assistente al booking in un’agenzia di modelli.
Era piccola anche l’agenzia, al secondo piano di un palazzo di mattoncini gialli e molto vetro. La titolare era un’ex modella
svedese, Charlotte. Bellissima e di una dolcezza infinita. Era arrivato in ritardo al primo colloquio: il bus non arrivava più, così
si era messo a correre e quando era arrivato, affannato e con mille scuse nella bocca, lei gli aveva risolto la giornata con
un “Hey, Easy”. Era l’approccio più diffuso: easy e alle diciotto tutti avevano già il cappotto addosso, il piumino mai.
Ogni tanto ci pensava a casa. L’isola nell’isola, più remota di una stella. Sarebbe stato più veloce arrivare a Lisbona, a Roma, a
Bruxelles e pure in Grecia. Per tornare a casa Giuseppe ci avrebbe messo due ore di volo, una di macchina e un’altra di traghetto.
Ma era bella quell’isola. Oh, era così bella che gli veniva il magone, quando ci pensava, ai campi di pietra bianca appoggiati sul
mare, alle casette rivestite di ceramica. Sopratutto al vento, perché su un’isola così piccola il vento è presente pure quando non c’è.
E quando invece c’è si fa sentire, tanto che le barche non si possono muovere dal porto e si diventa prigionieri in casa propria.
Pensava al vento perché un po` sembrava lo avesse seguito. Non sempre, ma c’era. Così si era inventato un modo per cominciare la giornata insieme a lui. Ogni mattina avrebbe preso una mezzora in più. Aveva trovato il posto perfetto, vicino alla casa in cui era andato ad abitare, che non era a Kreuzberg come avrebbe voluto, ma a Tempelhof. Lì, in un ex aeroporto in disuso, ora distesa infinita di erba e di niente, ogni mattina prima di diventare un assistente Booker lui sarebbe andato a incontrare il vento. A Tempelhofer Feld, in una mattina di Giugno con un’idea di sole addosso, in mezzo alla pista che la gente usava per pattinare, correre o addirittura per lo street-surf, aveva incontrato Bàrur. Stavano entrambi immobili a pochi metri di distanza a prendersi l’aria in faccia, Bàrur fumava una sigaretta, che puntualmente si spegneva per le folate. Avevano cominciato un abbozzo di conversazione. Nel dubbio, l’inglese era un passe-partout.
Anche Barùr veniva da un’isola, anzi da un arcipelago: le Faroe. Giuseppe non ne aveva mai sentito parlare e la mezz’ora dopo l’aveva trascorsa a leggerne la storia su Google. Le isole Faroe, quasi quasi dietro l’angolo eppure un mistero per molti.
In pausa pranzo aveva ordinato un libro di un’autrice Faroese. Il titolo era Ø, che in danese significa appunto isola. Un nome così grande chiuso in una lettera. La copertina poi era così bella, così blu. Il giorno dopo lo incontrò ancora, Bàrur, che gli confessò a sua volta di aver fatto le sue ricerche. “Tabarchino!” Gli disse ridendo con una “erre” inascoltabile, la sigaretta sempre spenta tra le labbra. “Ma che vento è questo?” si chiedeva Giuseppe, ma siccome aveva chiesto a voce alta quello gli rispose che i venti tedeschi hanno tutti lo stesso nome. O meglio: a lui non interessava dargli un nome, a quei venti, perché arrivavano sempre dalla stessa direzione. Era buffo, Bàrur. Aveva cinquantacinque anni e il fascino di chi sa parlare. Era ormai un appuntamento fisso e Giuseppe preparava le domande che gli avrebbe fatto. Sorrideva pensando alle storie su quelle isole che forse un po` si assomigliavano alla sua. Ad Agosto gli chiese se ce lo avrebbe portato un giorno, in mezzo al suo arcipelago. E Bàrur gli aveva accarezzato una guancia. Le sue dita odoravano di tabacco.
Era uno scrittore. L’esilio lo aveva costretto a reinventarsi i luoghi in cui era nato, per farli continuare a vivere. “La cosa più bella del mio lavoro è anche la più brutta: posso farlo ovunque a patto che sia in silenzio e solitudine.”
Settembre aveva ammazzato le foglie e le speranze di una lunga estate come quelle alle quali era abituato, Giuseppe, che nel frattempo si era trovato un nuovo paio di guanti. Settembre e gli sembrava ormai una relazione. Certo era soltanto verbale, forse platonica, ma lui e quell’uomo si vedevano regolarmente, nello stesso punto, e parlavano per una mezzora al giorno. Si aspettavano, ridevano l’uno dell’altro.
Nel frattempo aveva cambiato casa, spostandosi due fermate della metro più in là. A Berlino aveva scoperto che la cosa bella dei traslochi frequenti è che ogni volta fa male un po` meno di quella precedente e che a lungo andare sei così abituato che potresti trasferirti in un’ora,
chiudendo tutto ciò che ti porterai dietro in uno zaino. O una valigia tortora. Era successo il quattordici di Settembre. Era arrivato con due bicchieri fumanti di “Kaffee” al solito posto e lo aveva trovato vuoto. “Strano” si era detto accendendosi una sigaretta. Aveva preso a fumare. Un po` per dare senso alle attese dei bus, un po` perché si era innamorato della gestualità di Bàrur. Che adesso non c’era. Non c’era neanche il vento, ma quello è imprevedibile, Bàrur invece era diventato una certezza. E non ci sarebbe stato il giorno dopo o quello dopo ancora. Niente.
Era stato Giuseppe a non volere lo scambio di contatti, era così compiaciuto da quell’appuntamento senza messaggi e senza numeri. E adesso Bàrur era chissà dove. Dopo due settimane passate ad aspettare aveva smesso di andarci. Aveva cominciato a svegliarsi
un po` più tardi e pian piano stava godendo di quel boccone di sonno in più. Le sigarette le dimenticava a casa e alla fermata dell’autobus leggeva. Aveva divorato “Ø” in due giorni e poi si era aggrappato agli autori che parlavano della sua, di isola, che non si poteva dire in una sola lettera ma quanto si faceva raccontare bene, soprattutto se a leggere era uno di quei figli andati e mai tornati o non ancora.
A Dicembre aveva visto la neve. Sul davanzale e per le strade, così si era convinto: una tappa era d’obbligo. Quasi un metro di neve a Tempelhofer Feld. Tanto che ti saresti potuto buttare a terra a fare l’angelo, se solo avessi avuto voglia di sporcarti di fango. Però ci era andato.
Al solito punto ci aveva trovato una donna. Minuta, graziosa. Aveva in testa un berretto di velluto nero. Seduta sulla panchina vicino al cancello, leggeva. Giuseppe riconobbe la copertina: era l’autrice Faroese: la curiosità prese parola. “Siri Jacobsen?” chiese a voce alta e la donna si voltò. “Non sono io”, rispose in un inglese incerto e scoppiò a ridere.
Giuseppe riconobbe in quella voce una certa familiarità. Perché i sardi tra di loro si riconoscono
anche quando parlano altre lingue. E lo era, sarda, quella donna. Era di Cagliari, neanche troppo lontano, anche se i tabarchini
credono di vivere in un altro pianeta e forse hanno ragione. Aveva gli occhi verdi Anna, che appunto si chiamava Anna.
Annamaria: ma Maria l’aveva lasciata a casa, sull’isola, insieme al resto e pure a un figlio. A Berlino si era portata solo
Anna, e suo marito, Bàrur. Che sembra un verso e invece è un nome, un nome Faroese, come Siri. Le aveva fatto conoscere
tanti autori Faroesi, che le parlavano di quell’arcipelago così simile e diverso da lei. E adesso che era morto, suo marito, a lei
erano rimasti solo mezzo nome e molti libri in troppe lingue che le parlavano tutti delle stesse cose. Quando si faceva troppo
piena, quella casa che guardava il fiume, lei si andava a rifugiare nel posto che Bàrur le aveva descritto per mesi, quando andava a fare compagnia al vento.
Giuseppe era rimasto in silenzio ad ascoltare e non sapendo come reagire aveva scelto di non
farlo.
“Che poi questo vento, che tira così tanto e non si sa mai da dove arriva, come si chiama qui tu lo sai?”
Giuseppe sorrise, scosse la testa e le disse che no, non lo sapeva.