Quando ci reincontrammo seduti su un muretto umido di birra e discorremmo su Dio ed Eckhart,
non era mia intenzione violentare la scelta di non essere più coppia.
Trovando, però, un inaspettato consenso nei tuoi movimenti, nelle tue distanze, cedetti all’impulso di baciarti.
Mi scansasti, mi riversai sconfitta sulla tua spalla, unico spazio concessomi per riporre le mie intenzioni.
Quando ostinata, in estate, ti invitai alla rassegna di film all’aperto, mi incurvai nella panchina, accanto a te. Trovavo già ardito averti coinvolto in quell' elemosina di amore, allora mi irrigidii come le assi su cui poggiavo, mimetica, per cercare di non farti sentire costretto, in quella panchina.
Quell’estate pedalavo ricurva come un giunco, stordita dalla musica elettronica.
Come un giunco ero piegata, goffa a vedersi, ma nonostante le più estreme sensazioni di vuoto che mi avessero mai colto, non mi spezzai.
Le articolazioni, però, mi facevano un male…
Cambiai città, cambiai casa, rinnovai gli amici e la Facoltà.
Nel nuovo domicilio, nudo, mi rannicchiavo nella poltrona di vimini ascoltando Chavela Vargas, mi stiracchiavo sul letto documentandomi su Paco de Lucia: esigevo la legittimazione dei miei sentimenti nello struggimento degli altri.
Cercavo, stesa sul pavimento, metafore altisonanti per rendere giustizia ad un sentire che immaginavo unico.
La verità era che non mi ero mai sentita così impotente di fronte ad aggettivi ed avverbi, così banale nella semplicità umana di quello che sperimentavo, da potermi compiacere solo nelle parole già scritte da altri. Almeno scoprii la poesia, lettura a cui prima non sapevo dare spazio nel tempo frenetico dei miei pensieri.
Agli inviti dei compagni ad uscire rispondevo con una passeggiata di neanche un chilometro di passi,
mi sedevo su una panchina orientata verso il fiume e cercavo senso nelle anatre che si abbandonavano (ferme) al suo scorrere.
Se mi distraevo era ad un bar con gli amici, reidratandomi con la freschezza del luppolo, mentre osservavo coi gomiti inchiodati al tavolo i miei sospiri ritratti nel gioco di fumo che usciva dalle labbra. Spesso la sigaretta mi cascava beffarda dalle dita, molli.
Nel tentennare sul da farsi venisti a trovarmi a Torino, dove abbiamo camminato davvero, come non avessimo mai smesso di farlo.
Io lo chiamavo amore, tu nostalgia.
Allora, chiusa nell’ unica stanza tutelata da una serratura, mi sedetti sulla lavatrice, aspettando l'avvenuta disinfezione dei tuoi odori dai miei capi, e piansi rabbia.
Queste cose le faccio ancora, per la mia recidiva indole sedentaria, avendo però capito che al mondo ci sono tantissime ed inedite superfici su cui apoggiarmi, diverse da te.