Ci chiamavano "Mosche".
Il suono dei nostri nomi lo avevano dimenticato molto tempo prima.
Eravamo tre in dipartimento. Io ero la più giovane, fresca di concorso.
Delle altre due, una era in attesa di pensionamento, l'altra mi superava di pochi anni. Non ricordo chi tra i poliziotti avesse cominciato a soprannominarci così, all'inizio bisbigliando con risatine coperte da mani nervose e poi sempre più apertamente, fino a convincere anche noi che sì, quello non era solo il nostro lavoro, ma la nostra essenza: mosche.
Il motivo d'altronde era chiaro. Appena rinvenuto un cadavere, venivamo convocate e sciamavamo insieme sul posto dove il corpo giaceva semi-decomposto. Ne sradicavamo qualche pezzo, raccoglievamo in boccette i liquami, i vermi, nel mezzo di effluvi nauseabondi.
Come insetti attirate dallo sterco, ci gettavamo su residui di vomito, merda, putridume e ne facevamo incetta.
Agivamo in perfetto silenzio. Del resto non dovevamo corrompere le prove e la tuta ci copriva il viso per intero, rendendo impossibile comprendersi se non a gesti. Ci limitavamo a ronzare lontane dai poliziotti che non riuscivano a respirare nel tanfo senza rigettare, facendo intendere che sì, solo noi della scientifica sapevamo dare il giusto valore a quei rottami umani, trasformare un po' di saliva, tracce di sangue, ciglia, residui nelle unghie in dimostrazione inoppugnabile di colpevolezza, indovinare sul palco dell'ultima scena, atto dopo atto, la trama dell'ennesima tragedia
"Vuoi un po' di sperma, urina e feci... ti lascio le mutande. ah ah ah", mi rise in faccia un giorno un'agente sulla cinquantina.
Non risposi alla sua ironia macabra. Avevo imparato a non reagire alle provocazioni, almeno da quella volta in cui il commissario mi aveva costretto a subire un ditalino, senza che riuscissi a reagire. Allora lo credevo onnipotente e poi il ricordo delle parole di mia nonna mi impediva di gridare, invocare aiuto: "Tutto, per il lavoro!". Viveva asservita alla pensione di guerra di un vecchio alcolista e violento, che perdipiù la tradiva con tutte le puttane del paese. Non che il mio persecutore potesse minacciare altrettanto. Era impotente, come ebbi conferma dalle altre colleghe, vittime delle sue attenzioni morbose. E anche quando ormai avevo capito come far valere i miei diritti, che potevo non subire ma ottenere giustizia, lasciai che facesse. Era diventata una routine innocua. Non intralciava nemmeno il flusso dei miei pensieri. E poi ci serviva, per quell'accordo non scritto con cui taceva ai superiori alcune leggerezze nelle nostre indagini. Gli lasciavo momentaneamente il mio corpo e, con la mente e lo sguardo, volavo ai residui freschi di sudore che rilucevano sulla scrivania, alle tracce di altri abusi che mi affascinavano e soggiogavano la mia curiosità. Ricostruivo i suoi passi, immaginavo i corpi delle altre "mosche", profanati da quell'essere immondo, fino a che venivo sulle sue mani. L'esaltazione del suo sguardo mentre si passava le dita sui baffi neri era la condanna che gli riservavo. Abbandonarlo alla sua mania, come una formica in zucchero e bicarbonato, finché ne morisse.
Ricordo quel giorno come fosse ieri. L'umidità pesante di una nebbia estiva, io che grondavo sotto la tuta di lavoro, con l'assorbente zuppo tra le gambe e il rumore incessante delle macchine. Il mio corpo e quello delle mie colleghe, bianchi, eterei, muoversi sincroni, come angeli della morte, venuti a consolare l'anima del deceduto.
"Capisce, ispettore, non possiamo smettere la produzione."
Il titolare accumulava le parole in velocità, scarnificandosi le unghie fino a sanguinare. "Devo fare la consegna entro dopodomani".
Il giovane ispettore taceva. Osservava noi, come se, dal nostro danzare attorno alla morte, potesse prevedere l'esito delle nostre ricerche.
"Per stasera sarà tutto libero", disse risoluto.
Il corpo era lì da due giorni. I pochi presenti lavoravano coi volti nascosti sotto mascherine da cui spuntavano occhi stralunati. Cercavano di agire come se il cadavere non fosse lì, non esistesse e quelle membra, vittime di una decomposizione accelerata dal calore soffocante, non appartenessero fino a poco prima a un essere della stessa specie.
Vivono, gli umani, fingendo di non essere sedimentati, anima e corpo, dai residui organici dei nostri predecessori, dalle loro filosofie e dalle loro passioni. Ricombinazioni delle ceneri dei nostri antenati, ecco quello che chiamiamo "generare".
"Allora?", mi fece l'ispettore, prendendomi da parte dopo che avevamo finito. "Scoperto qualcosa?".
"Ispettore, lei sa che dobbiamo…"
"Ho visto come vi muovevate. Sapete già!"
Parlava guardandomi negli occhi. Giovane, sicuro di sé e maledettamente attraente.
"Me lo dovete dire, se è omicidio. Va a finire che mi tocca passare la licenza a cercare il colpevole."
"Ah sì? Va in licenza? E che programmi ha?"
"Se me lo chiede, deduco che non è omicidio. Venga, le offro da bere e le racconto", ammiccò.
Mi raccontò della sua prenotazione per un viaggio in Norvegia, del circolo polare, della casa dove abitava.
Del suo amore per quelle due solitudini, l'artico e la casa, dove si rintanava per trovare pace.
Mentre parlava, indugiavo lo sguardo su di lui, ipnotizzata dalle gocce di sudore che gli scivolavano sul collo.
Avrebbe dovuto partire il pomeriggio successivo, avevamo tutto il tempo. Posai la mia mano sulla sua.
La serata si concluse come doveva: nel dubbio, tra le solitudini delle nostre case, prese dimora sul mio letto.
E il giorno dopo non partì. E nemmeno il successivo.
Rimase a casa mia fino alla festa per la pensione della collega più anziana, cinque giorni dopo.
Era una festa doppia in effetti: si salutava una sorella e se ne accoglieva un'altra, una "novizia", fresca di concorso. Una tradizione ormai. Lo stesso era avvenuto per me. E per la prima volta si teneva a casa mia.
Accolsi le altre "Mosche" all'ingresso. Furono affascinate dalla mia collezione di larve, dalle gigantografie dei corpi più interessanti che avevamo analizzato e con cui avevo tappezzato il salotto. Dalle boccette di vecchi casi che tenevo sulle mensole.
La giovane novizia, piuttosto sulle sue all'inizio, si lasciò andare, forse anche inebriata dal profumo della cena che saturava la casa.
Sfregandosi le mani come per pulirle, ci descrisse le attenzioni del Commissario. Ci raccontò della sua solitudine. La rassicurammo. Era tra gente della sua stessa specie, finalmente.
Mentre parlavamo, l'ispettore aspettava in cucina. Lo raggiunsi.
"È quasi pronto! Venite!", ed esse ronzarono subito attorno al tavolo.
Lui se ne stava lì, putrefatto, a lasciarsi ammirare dagli occhi famelici di tutte noi.
Finché la novizia, soggiogata dal suo aroma, si passò la lingua sulle labbra.