I tre si accingevano a perlustrare la Spiaggia Iperurania. Si stava avvicinando il tramonto, l’ora propizia per scovare un Artista Dannato, secondo le indicazioni date a Jay dal Maestro. Daisy però temporeggiava. Giocherellava con la borsetta 2.55 di Chanel gettando con insistenza lo sguardo verso la fila di cabine mobili da spiaggia schierate a ridosso degli ombrelloni. Anche Helen era nervosa. Faceva cadere di continuo a terra le ciabattine Ipanema in plexiglass e PVC che teneva nella mano sinistra. La cenere del mozzicone che stringeva nella destra si disperdeva fra le pieghe e i tagli dei jeans brutalizzati da Roberto Cavalli. Entrambe fumavano una Camel dopo l’altra per contenere il nervosismo, con scarsi risultati, ignorando i posacenere a forma d’elefante che Dalí, con spirito ecologico, aveva disseminato dappertutto. Forse è per lo smodato consumo di sigarette che hanno il fiato sempre un po’ sgradevole, pensò Jay. Anche se, gli aveva fatto notare Tim, le donne fumatrici hanno una caratteristica interessante: « chel le sòn abituee… cam dit voialter… sono abituate a tenere intela boca an hot long thing… una cosa lunga e calda in bocca».
Per ingannare l’attesa, le sorelle parlavano del loro argomento preferito.
«Questa stagione si è deciso che lo street è finito. Ci si interroga sul logo, sul tailoring, sul glamour e sull’eleganza, ma il nuovo? Qual è? Se questo è il moderno!» si sfogava Helen.
«Spero nelle nuove generazioni e nello sportwear – Daisy cercava di mostrarsi all’altezza intellettuale della sorella quando si toccavano certi temi – però se devono andare a una cerimonia qualsiasi ecco che anche i giovani indossano giacca e cravatta».
Ostentavano sicurezza; dal modo di muoversi trapelava tuttavia l’impazienza di certi schizofrenici, incapaci di sopportare un livello anche minimo di dolore o di disagio. Disturbo tipico, più in generale, di chi pretende di cogliere solo con i cinque sensi il mondo: non sapendolo guardare con gli occhi dell’anima, finisce per perdersi nella follia del Nulla.
«Che c’è, ragazze?» le interruppe Jay.
«Stiamo aspettando il nostro uomo. Abbiamo trenta sesterzi per lui» rispose Daisy.
«È quello?» s’informò lui, indicando un bagnino che sbucava sbuffando dal retro di una casetta con le pareti colorate, un grande cubo di Rubik.
«No, stiamo cercando il Pescivendolo. Gli dobbiamo… un anticipo».
Le due si scambiarono uno sguardo d’intesa. Jay avvertì il morso della gelosia.
«Earnest vi piace, non è vero?».
«Con quegli occhioni malinconici da E.T… è così carino!» rispose Helen. Poi gli voltò le spalle e tornò a chiaccherare con Daisy.
Lui accusò il colpo. Carino. Che parola ributtante. Tuttavia, si rese conto che l’ambiguo bevitore di assenzio – con quella vulnerabilità che pure flirtava con una forma di violenza sul punto di esplodere, la sincerità dell’indecifrabile parlare doppio, l’aggressiva arrendevolezza della sua mascolinità femminea – esercitava sulle donne un fascino irresistibile. Lo stesso di Hello Kitty, che non ha né bocca né voce né dita, della bambola So Shy Sherri, del Balloon Dog di Jeff Koons e, antesignana storica di tutti loro, di “riccioli d’oro” Shirley Temple. Oggetti e soggetti al tempo stesso vulnerabili e vagamente minacciosi: perfetti per soddisfare qualsiasi fantasia sadica o perversa. Ricordò quella frase di Frenchie, nella Prima Stagione di The Boys: “Mio padre era bipolare. Quando avevo sette anni provò a soffocarmi con una coperta di Hello Kitty”. Non ci fu tempo per altre riflessioni. Dietro al bagnino apparve il giovane assistente. Stavano caricando un globo luminoso su un pedalò alato.
«Here Comes the Moon, Daisy!» salutarono i bagnini della Spiaggia Iperurania, nel tipico dialetto ariminense, non appena scorsero i tre giovani.
Jay ebbe una folgorazione. «Ecco cosa succede qui. La Luna non risplende se non la si chiama Luna. Le cose, il loro senso e le parole coincidono».
Le due gemelle, colpite da quell’affermazione, finalmente si degnarono di prestargli attenzione.
«Ricordi quella canzone cantata dal Cavaliere Bianco in Attraverso lo specchio?» gli domandò Daisy.
«Si chiamava Ariminum Circus, mi pare».
«Il Cavaliere Bianco canta la canzone Ariminum Circus che ha per nome Corsi e Ricorsi, che ha per nome Lo Yin e lo Yang. Vengono così distinti tre livelli: della cosa, del nome della cosa e del nome del nome. In più, la canzone è chiamata L’Uroboro e l’Anfesibena: oltre ai nomi, esistono anche i soprannomi. Ma pure Ariminum Circus non è altro che un nome, perché la vera canzone la si può solo cantare o ascoltare: a dimostrazione del fatto che tutte le distinzioni sono stratificazioni interne al linguaggio, non arrivando mai a toccare il mondo reale. Perché non esiste. E comunque, diceva Nonno Emilio, non c’è modo di provare che è preferibile Essere a Non Essere».
Nonno Emilio era proprio un chiodo fisso. Daisy gli ricordava la piccola Nell del Circolo Pickwick: posseduta dal desiderio ossessivo di immobilità e dal desiderio di morte, nati proprio dall’amore edipico verso il nonno, vorrebbe che nulla cambiasse. Ma non si lasciò distrarre da quelle rimembranze dickensiane.
«Però, la Zanzara introduce Alice nel bosco delle cose senza nome, o delle cose in se stesse, esistenti indipendentemente da chi le nomina».
«Il bosco in cui crescono gli alberi di Emily Dickinson?» motteggiò Daisy, accendendosi l'ennesima sigaretta.
Il giovane ignorò l’interruzione. «Una volta fuori da lì, Alice scopre l’intima relazione fra le cose e i nomi. Soprattutto, che il nome rappresenta l’estrema difesa dell’individualità. Questo è il senso dell’ultimo consiglio dato dalla Regina Bianca ad Alice all’inizio del suo viaggio nel Paese dello Specchio: “E ricordati il tuo nome!”».
«Sì, ma fuori da quel bosco, così come fuori da questa Spiaggia Iperurania, non c’è niente da difendere. Se ci pensi bene, Jay, è la stessa morale di quel film di Kubrick, Full Metal Jacket. L’inconsistenza della singolarità individuale è dimostrata partendo dalla possibilità di sostituire il nome proprio con un codice, un numero di matricola, un ruolo, un grado: lapidi diverse da apporre sulla fossa comune in cui giacciono le nostre presunte personalità» intervenne Helen.
«Ho visto il film – amo tutti quelli di Kubrick – ma questo aspetto mi era sfuggito».
Non gli sfuggiva invece il comportamento di Daisy, che stava buttando sulla spiaggia una raffica di mozziconi. Intollerabile anche perché, a pochi passi da loro, uno dei piccoli elefanti-posacenere a disposizione dei bagnanti era pronto a rendere i suoi umili servigi. Lo prese e lo mise in mano a Daisy. Un grazie sarebbe stato gradito.
«Caro, mi sorprendi! Il primo tempo è dedicato al corso di formazione che il sergente Hartman impartisce alle reclute. Lo conosco bene, perché è il modello cui m’ispiro per la realizzazione dei miei video blog: è perfetto per dare consigli sull’applicazione del giusto make-up. Il passo iniziale per un trucco impeccabile è la distruzione della tua personalità originale per plasmarne una nuova, attraverso l’utilizzo di tutte le novità sfornate ogni giorno dai brand del fashion. Si tratta di un percorso che richiede la capacità di accettare qualsiasi mortificazione dell’io sia necessaria per ascendere alle vette da cui ti scrutano le grandi star del cinema, di Internet o della musica pop».
«Come te?». Helen non sembrò cogliere il sarcasmo di Jay. Sotto questo profilo, lo scambio fra l’uomo e la donna somigliava molto a un dialogo fra individui affetti da autismo.
«Be’, sì, caro, come me. Allo stesso modo, la lezione di Hartman è incentrata sulla demolizione della soggettività attraverso la riduzione dell’identità al ruolo (quello di soldato che deve fare l’amore solo con il suo fucile) e lo stravolgimento/ribaltamento del nome proprio. L’uomo di colore da quel momento in poi si chiamerà “Soldato Biancaneve” (doppia umiliazione e doppio attacco all’individualità: al colore della pelle e al sesso di appartenenza); quello grasso diventa “Palla di lardo”; quello spiritoso “Joker”; e via dicendo. Un percorso che si conclude con l’assassinio di Hartman da parte di Palla di lardo, atto di ribellione estremo e senza speranza, veramente poco cool, se posso dirlo: Palla di lardo subito dopo si spara un colpo di fucile in bocca, che ne decreta la morte fisica e ancor prima la morte spirituale».
Mentre Helen terminava il suo ragionamento, il bagnino e il suo assistente tornavano dalla battigia con passo marziale. Obiettivo di quell’anabasi sembrava essere proprio la coppia di sorelle. Ma Jay si era distratto e non frappose nessuna linea Maginot per contenere l’attacco. Stava visualizzado il finale sardonico e nonsense del film: il soldato Joker che marcia al ritmo di una musichetta disneyana. Questa è la via di salvezza dalla banale prosaicità del mondo indicata da Kubrick: l’irrisione del potere che ne smaschera la vuotezza. Allo stesso modo di Alice, pensò ancora, pronta a spazzare via il regime vessatorio della Regina Rossa, facendone saltare per aria l’esercito (gesto che ripete con i pezzi che si muovono su quella scacchiera che è il Paese dello Specchio): mero mazzo di carte numerate e senza nome. Come siamo tutti noi?
C’era qualcosa di spaventoso nelle parole di Daisy e Helen, pensò il ragazzo, nella loro visione del mondo. Il mondo del si pensa, si dice, si fa. Dove tutto è disperso, a pezzi, disarticolato. In cui non solo gli uomini, ma anche gli oggetti diventano puri segni, che si scambiano tra di loro senza più alcuna realtà a cui fare riferimento. Il mondo diviene un patchwork instabile di frammenti illusori che si toccano solo per un breve istante, poiché cadono subito preda della frenesia vorticosa di un parlare che fagocita ogni suo oggetto – dai film di Kubrick (“capolavori!”) ai gioielli di Tiffany (“imperdibili!”), dalle borsette di Tod’s (“super cool!”) alle poesie di Lewis Carroll (“carinissime!”), fino ai quadri di Miró (“perfetti per fare da sfondo alla sfilata della nuova collezione di Louis Vuitton!”) – lasciando disperdere la possibilità che significhi qualcosa.
Ogni questione è risolta nella forma di luoghi comuni: argomenti ricorrenti dal valore generale, che si adattano a qualunque materia. Vale per i trucchi e la moda di Daisy ed Helen, parenti stretti della Morte stessa, come insegna Leopardi; ma anche per le vicende calcistiche che mi appassionano, o per il golf caro agli ariminensi, dovette ammettere. Non avendo un oggetto specifico, i luoghi comuni non accrescono la conoscenza delle cose. Al contrario, alimentano la stupidità diffusa, la rendono epidemica. Sono strumenti per cui non conta alcun criterio di validità. Arrivano ad appropriarsi, banalizzandola, di qualsiasi idea, dalla “leggerezza calviniana” alla “società liquida” di Bauman. Raccolgono il Vuoto di senso generato dalla mancanza di riflessione su un Essere che viene condannato alla dissoluzione, all’entropia: al non essere. Nel chiacchiericcio di Daisy e Helen Jay coglieva quindi un’intenzionalità malvagia nei confronti dell’Essere, una precisa volontà di distruzione sistematica del significato, un agire determinato dal bisogno di sentirsi al di sopra degli altri e di sottometterli, sprofondandoli nel baratro dell’insignificanza. Ebbe il presentimento di due pericoli mortali che incombevano sugli ariminensi: l’assenza di significato da un lato, la sete di dominio dall’altro. Due figure che, combinate insieme, andavano a costituire la forma perfetta di ogni nazismo.
Jay rabbrividì. Non per il freddo, questa volta.
Quel pomeriggio Helen e Daisy avrebbero atteso invano il Pescivendolo accanto alle cabine mobili da spiaggia. Earnest aveva raggiunto il Piccolo Ed, il Maestro e il Custode all’Asilo. Le lezioni erano terminate. La sala giochi dipinta di verde pistacchio era pronta per la festa d’addio di un’istitutrice prossima alla pensione. Il soffitto era stipato di palloncini metallizzati rossi a forma di fumetto: ogni tanto qualcuno si sgonfiava e cadeva sulla testa di un bambino. Sembravano gocce di sangue stillanti dalle viscere dell’edificio a seguito di un’emorragia interna; o dal collo, dopo il bacio di un Vampiro.
Dagli altoparlanti si diffondevano le note di una canzone, un pezzo folk degli Psychedelic Furs:
«In the house where Alice lives, it’s a mess of souvenirs…».
Come questi?, si domandò il Maestro, vedendo i giocattoli sparsi nel locale:
un torso in fibra di lino, colla e gesso, retto da due scope e con una testa simile a una maschera, occhi di vetro e una parrucca trascurata;
un divanetto a forma di labbra di donna, alla destra di un telefono con una cornetta-aragosta, su un tavolino con gambe di gru. Dall’altra parte, un set di mazze-fenicottero e alcune palline-riccio;
un elefantino in acciaio colorato, che rifletteva l’immagine di ciò che lo circondava;
una tempera realizzata da Earnest, dal titolo Turbato (Confuso): una tela in cui si era autoritratto sia sull’ante che sul retro – con il viso allegro da una parte, triste dall’altra.
«Cosa pensi?».
Alla richiesta del Piccolo Ed, il Maestro si riscosse, guardò gli amici e rispose con una domanda: «Sapete perché un corvo assomiglia a un tavolino?».
«Che sia perché entrambi producono alcune Note, anche se Piatte; e non sono mai disposti al contrario?». Earnest fece la battuta, il cui spirito nessuno dei presenti apprezzò, sorridendo in quel modo un po’ forzato che negli ultimi tempi sfoderava di frequente. Era la reazione a un senso di debolezza che lo prendeva sempre più spesso, non si capiva se indotto dalla cirrosi che avanzava o dalla stanchezza per la stupidità umana – era giunto al punto di trovare grottesco ogni aspetto della vita dell’ariminense comune, a meno che non fosse realmente grottesco, nel qual caso lo chiamava realistico. Sta di fatto che il viso aveva perso luminosità. Anche i lunghi capelli rossicci, lasciati sciolti sulle spalle, sembravano essersi sbiaditi. Gli occhi tondi erano sporgenti, le palpebre pesanti. Si vedevano le occhiaie.
«A dire il vero, non ne ho la più pallida idea» confessò il Maestro.