La vecchietta non me la ricordavo una roccia. Anzi. Sembrava una bambolina di cartapesta, grinzosa e leggera, animata da un alito di vita e da un battito di farfalla. Portava un largo e spesso scialle di cui stringeva nervosamente le estremità. Come se aggrappandosi a quel paracadute di lana nera fosse sicura di non cadere in terra al primo soffio di vento.
Matilde aveva ragione ad essere arrabbiata. Le avevo promesso che appena la casa si fosse liberata ci saremmo sposati. Erano quattro anni che non facevo che ripeterle lo stesso ritornello. “Vedrai, non manca molto, ha novantatré anni, quanto ancora può resistere?”. E Matilde, da brava futura padrona di casa, aveva già scelto il colore delle tende, pitturato ogni parete della sua testa di una diversa sfumatura di giallo limone. Ma ormai minacciava seriamente di rompere la nostra relazione. Dovevo trovare una soluzione che ci permettesse di entrare in quella che, alla morte della vecchia, sarebbe diventata la nostra casa.
Fu così che andai a trovarla. Lo confesso, morivo dalla curiosità di vederla. Non che mi aspettassi di incontrare una specie di zombie con i capelli cotonati, ma diamine, di certo non immaginavo di tendere la mano a quella che sembrava un’istantanea del passato. Persino lo scialle era lo stesso: nero, pesante, saldamente poggiato su quelle spallucce spioventi.
- Ah, signor Falletti! Chi non muore si rivede! Si accomodi. Ma cosa mi ha portato? Una scatola di cioccolatini! Grazie. Filippo sarà contento! –
La vecchia carampana non solo stava benissimo, ma aveva anche compagnia. Da dove diavolo era spuntato questo Filippo? E soprattutto chi era? Viveva lì? Se sperava di rimediare qualcosa alla morte della vecchia era fuori strada. Mi promisi di mettere in chiaro la cosa con questo cacciatore di dote non appena ne avessi avuto l’occasione.
Come attratto dal richiamo della carta scartata, nel salotto fece il suo ingresso un maestoso gatto nero. Trotterellò fiero e poi, con un balzo elegantissimo, prese posto alla destra della Persichetti. Un gatto! Filippo non era nient’altro che uno stupidissimo gatto!
- Ma che bella bestiola! - dissi con il tono più stucchevole che riuscii a impostare.
- Sa, mi fa tanta compagnia. Lei è ancora così giovane, non può capire, ma quello che davvero uccide noi anziani è la solitudine. Senza Filippo probabilmente sarei al camposanto da un pezzo! –
Per poco non mi strozzai con il caffè. Un’idea semplice si fece strada nella mia mente. Sì. Avrebbe potuto funzionare. In fondo acchiappare un gatto rincoglionito dai croccantini non poteva essere un’impresa così complicata. Sicuramente, più agevole del tornare da Matilde senza una data per il trasloco.
Ci voleva un piano per restare soli col gatto. Ricorsi al vecchio trucco della macchia di caffè sulla camicia per sbarazzarmi della vecchia e tentare la mia mossa.
Nel frattempo, il gatto aveva iniziato a fissarmi. Quatto quatto, cominciai a girare intorno alla poltrona, nel tentativo di prenderlo di sorpresa. Ma proprio quando la mia mano stava per afferrargli la collottola, quel maledettissimo gattaccio rispolverò l’antica natura felina e, fulmineo, piantò i suoi artigli nel dorso della mia mano. Imprecai sottovoce e rivolsi il mio sguardo di odio verso quella belva inferocita. Filippo era saltato sopra la credenza: il pelo ritto e gonfio, le fauci spalancate, soffiava come un forsennato verso di me, sfidandomi. Vieni a prendermi Cretinetti, sembrava dicesse, tenendo le piccole orecchie tirate indietro, frustando l’aria con il movimento scattoso della coda.
Ragionai. Nella concatenazione d’anelli che rappresentano la catena evolutiva, io dovevo essere sicuramente un bel pezzo avanti a lui. La mia specie si era conquistata un posto di dominio sul pianeta terra competendo contro ben altre ferocissime creature. Per sbarazzarmi di quel piccolo bastardo dovevo solo ricordarmi della mia lontana parentela con Conan il barbaro, far riemergere il ricordo dell’intrepido cacciatore che agita la lancia mentre sotto la luna rincorre scalzo la sua preda ferita.
Presi quindi la scatola di cioccolatini rimasta poggiata sul sofà e la scossi. Pensavo che il rumore del mangiare avrebbe esercitato in pieno il suo fascino, riportando a terra la bestia. Mi avvicinai, spalle alla finestra, certo di potercela fare. Immaginavo di sentire tra le mani quel groviglio di tessuto fragile che lottava disperato contro la mia stretta assassina. Poi solo un crack sordo, tra l’intersezione delle vertebre del collo. Il gatto sarebbe morto all’istante, trascinando con sé, tra le nebbie della morte, anche quella vecchia maledetta.
Ma mi sbagliavo. Proprio quando credevo di avercela fatta, Filippo fece un balzo. Agile, il gatto posò le sue zampe sulle mie spalle facendomi perdere l’equilibrio. Caddi giù, urlando. L’ultima cosa che ricordo di quei secondi interminabili fu il viso della vecchia: mi sorrideva, lei e le sue rughe. Salutava con la mano libera, tenendosi stretta al petto il suo lucente gatto nero.