È domenica mattina. Loro sono svegli, si preparano per la messa.
Nella camera vicina io sono ancora a letto. Dormo da ieri sera, forse di più. Da circa due ore non è più stanchezza.
Loro continuano a prepararsi. Neanche una parola. Quando sono pronti, escono.
Nella mente la sensazione che ci vadano per chiedere aiuto.
Al ritorno lei porta con sé questo cero completamente bianco. Ora scambiano qualche frase. Sorrisi.
‘Bisogna tenerla accesa fino all’inizio dell’anno nuovo’, le sento spiegare attraverso la porta a scomparsa. ‘È la luce della Pace’.
Nessun posto sembra abbastanza sicuro per custodirla.
È un bel proposito quello della Pace, penso. Sarà arduo vegliare su qualcosa di immateriale per quasi un mese. Mi fa tenerezza sentirla esporre l'obiettivo con orgoglio: come se da quella fiamma dipendessero davvero gli equilibri di qualcun altro che non sia lei.
La posizione scelta è accanto al televisore, sulla libreria, alla sinistra della foto di suo padre.
Più o meno inconsciamente, gli è dedicata.
Nei giorni successivi diverse volte la cera viene travasata affinché lo stoppino non si esaurisca: la osservo impegnarsi nella ricerca di vecchie candele da sacrificare alla nobile causa della Pace.
È una fiamma invisibile durante la giornata, impercettibile nella luce del salotto. Solo di notte ricorda la sua presenza. Anche perché dalla libreria viene spostata a terra, sul pavimento.
Ciò accade, ormai, da quindici notti. È un buon risultato, all’inizio dell’anno mancano pochi giorni. Sono contento per lei, seriamente contento per lei, sebbene non gliel’abbia mai detto. Non parliamo spesso, ma questo non m’impedisce d’essere felice, se raggiunge dei risultati.
Poco prima di Natale, intanto, dall’altro lato della stanza, è apparso un nuovo apparecchio: il Bimby. Per chi non sapesse cos’è il Bimby, provvede la Vorwerk a descriverlo come “il robot da cucina di qualità superiore che da solo svolge le funzioni di 12 elettrodomestici per semplificare al massimo la tua vita”. Per quanti invece lo sapessero, sarete probabilmente a conoscenza anche di un’altra sua peculiarità: il costo. Il Bimby è caro. Svolge le funzioni di dodici elettrodomestici ma d’altronde costa quanto tre o forse quattro di questi. È stato un acquisto attentamente valutato, frutto del suo nuovo lavoro. Il desiderio di una vita per una casalinga appassionata di cucina, possibile solo grazie ad ore trascorse a lucidare le case di estranei. C’è qualcosa di servile anche in una passione così ostinata: pietanze preparate sin nei minimi dettagli e poi tutto nello stomaco del primo che arriva, che magari avrebbe mangiato con lo stesso gusto anche carne in scatola. È la sua natura, è marchiata. Questo glielo rimprovererei volentieri. Ma, come ho detto, non parliamo spesso. E per quel poco che parliamo, permettermi dei rimproveri sarebbe un abuso.
Il Bimby ci ha fatto compiere un’ascesa: siamo avanzati alla classe di coloro che possono permetterselo. Ha sancito il nostro ingresso nella borghesia domestica. Anche per questo non lo soffro: a causa sua, il vittimismo ha smesso di essere una questione congenita ed è diventato un problema solo mio.
Comunque. Su di esso lei, come prevedibile, ha concentrato le sue attenzioni. È la sua valvola di decompressione: quando è triste o stressata, si pranza coi fiocchi. Se non fosse vero sarebbe persino divertente.
È rumoroso, questo la Vorwerk non lo dice. Talvolta mi domando cosa succederebbe se casualmente al Bimby accadesse qualcosa. Un pensiero che ricaccio indietro con vergogna. La distruggerebbe.
E poi una notte mi sveglio.
Sapete come funziona di notte: se sei sveglio, vuol dire che non stai facendo l’unica cosa che dovresti fare. E allora non hai niente da fare. E a volte sembra che le tue azioni non avranno ripercussioni il giorno seguente, come se alla mattina mancassero millenni.
La luce è spenta, ma l’appartamento comunque illuminato dal colore della Pace, che ho scoperto possedere sfumature arancioni e seppia. Mi avvicino al Bimby e ne stacco la spina. Lo ispeziono. Lo capovolgo. Cerco un cacciavite.
É così inerme, ora. Vorrei che avesse le zampe per vederlo annaspare. Una volta sollevata la scocca in plastica è praticamente nudo: le interiora di cavi colorati e circuiti tradiscono un meccanismo semplice, meno articolato di quanto da fuori dia a vedere. Lo sapevo. L’avevo sempre saputo.
Riempio un bicchiere d’acqua. Ne bevo metà. Il resto lo verso.
Quindi indietreggio di qualche passo, senza voltarmi, sino a trovarmi poggiato alla spalliera del divano. Lì resto bloccato qualche attimo, come febbricitante, osservando la scena. Mi rialzo e con qualche altro passo supero il tavolo da pranzo. Ora ho la libreria, davanti. Avvicino il viso al cero. Avverto il calore della fiamma sulla pelle. Mio nonno ha quell’espressione di carta plastificata cui ormai ho fatto l’abitudine. Non ricordo un’altra sua espressione che non sia questa.
Qualche secondo dopo, è svanito nel buio.
Se mai c’è stata pace in questa casa, è bastato un soffio.