Da adulto sono geloso dei panni stesi di tutto il mondo e del vento dentro.
A otto anni ero il quinto di otto figli. In casa tutti erano sempre in compagnia di tutti, non esisteva il privilegio della solitudine, la possibilità di possedere un piccolo fatto non condiviso. Il maglione ai ferri passava, negli anni, da un cassetto all’altro fino al fratello più esile, la bambola con le trecce rosse di Amelia giocava poi con la piccola Tea.
Il mio istinto di bambino aveva imparato a respirare forte i momenti serbati.
Oggi, in questa sequenza diversa, movimenti lenti mi recano a sera e i ricordi mi vengono a trovare sul davanzale.
Chiamavo “rumore di famiglia” una porta sbattuta che sovrastava due voci allegre, unite allo scroscio dell’acqua nel secchio e al fischio della pentola a pressione. Collaborazione era la parola d’ordine e i turni scandivano le giornate.
Abitavamo in una casa stretta, su più piani, su un vicolo denso del vociare intorno alle verdure che mio padre vendeva alle comari. Dalla scala interna, quando era il mio turno, salivo in terrazza a stendere il bucato con mia madre, mi portavo il catino e il cesto di mollette. Aperta la porta di assi, la luce bollente attraversava le fessure degli occhi fino al cuore.
la geometrica lama del mare, così sola, mi dava pace.
I panni che sbattevano al vento, come schiaffo a vele impavide, erano la colonna sonora di un momento intimo, raro. Non parlavamo molto, qualche parola volava via. Lei stendeva le lenzuola con calma molle e io i calzini che avevo nel catino. Il pavimento arroventava i piedi nudi.
Una raffica di vento e un sorriso, una raffica di vento e la gioia di tenerla solo per me.