E così sei andato alla stazione a prenderla.
Hai finito di lavorare prima del solito, ti sei piazzato un sigaro al centro della barba di pece, hai frugato in tasca per cercare l’accendino, ti sei trattenuto, non sapevi se il fumo le avrebbe dato fastidio. Il sigaro l’hai lasciato lì, a ballarti in bocca, per fare scena. Avevi la camicia a righe, quella bianca e grigia che metti per le giornate meno formali.
Lei è arrivata scombussolata, ti ha cercato con lo sguardo tra la piccola folla creatasi davanti al binario, la lunga coda di cavallo dei suoi capelli perfetti si muoveva delicata a ogni spostamento della testa. L’hai vista prima tu, le hai tolto la valigia dalla mano, l’hai baciata con trasporto, ma prestando attenzione a non farla sbilanciare o a toglierle il fiato.
Come fai con me ogni volta che torno da te dopo un lungo viaggio.
Siete andati a mangiare in quel posto in cui mi porti sempre, le hai fatto bere il mio vino preferito. Lei ha riso ingenua alle tue battute, così ben calibrate e distribuite lungo la serata, fatte apposta per farla divertire ma non al punto da pensare che fossi uno stupido. Le hai fatto i complimenti per il suo sorriso, per l’eleganza nel mangiare, per la sensualità nel bere, per come le stavano bene quei pantaloni neri oggi.
Siete saliti a casa, avete parlato a lungo sul lungo divano bianco del salotto, quello dove mi hai baciata per la prima volta. Hai respirato ad occhi chiusi il suo profumo costoso, le sue mani perfette ti hanno accarezzato piano il profilo. L’hai fatta sentire completamente a suo agio come sai fare tu, per un attimo si è quasi dimenticata di essere lei l’estranea in casa.
Hai ammirato la sua intelligenza, i tuoi occhi hanno brillato a ogni sua frase, le hai dato il mio accappatoio quando ti ha chiesto se poteva farsi una doccia prima di farsi amare dalle tue mani di quercia e velluto.
È uscita dal bagno avvolta nel vapore profumato del mio sapone, è tornata da te in punta di piedi, un po’ per coglierti di sorpresa, un po’ perché il pavimento è sempre troppo freddo. Le sue dita hanno corso tra i tuoi capelli, tu le hai preso i polsi e l’hai tirata verso di te per baciarla, senza paura di toglierle il fiato stavolta.
Si è lasciata cadere sulle lenzuola, quelle azzurre che mi irritano la pelle, quelle che stavano facendo sembrare i suoi occhi ancora più grandi, la sua pelle ancora più perfetta. I suoi sospiri erano musicali e caldi, mai sguaiati, mai esagerati, non hanno svegliato i vicini come fanno di solito i miei.
L’accappatoio è rimasto a terra, impotente e svogliato, fino al mattino dopo.
Quanto è dolce la sua bocca? Con quale seta pregiata è stata tessuta la sua pelle, con quali rubini e quarzi rosa sono stati ricamati i suoi capezzoli? Quale abile sarta parigina ha curato gli intarsi delle sue lentiggini? Quanto è caldo il suo ventre, quanto accoglienti le sue cosce? In quali foreste di galassie caleidoscopiche ti ha guidato il suo sguardo mentre il suo corpo si muoveva sul tuo? I suoi polpastrelli di peonia hanno corso tremanti sul tuo petto accogliente, tentati dall’idea di affondarci le unghie?
I suoi denti di perle giapponesi non ti hanno graffiato il cazzo neanche una volta?
No, scusa, hai ragione. Non vuoi che sia volgare. Non ho motivo di essere volgare quando penso a voi due insieme, in una casa che tu ti ostini a definire anche mia, alla quale mi hai permesso di apportare qualunque modifica volessi, di cui mi hai persino dato le chiavi per andare e venire quando volevo, quando potevo.
Mi avevi parlato di lei, prima che venisse da te. Mi avevi detto che viveva nella mia città, che sarebbe passata dalle tue parti solo per vedere un’amica e che ne avreste approfittato per passare una serata insieme. Mi avevi detto che quella notte avrebbe dormito da te.
Me lo hai detto, e poi raccontato nei dettagli, senza sensi di colpa o timore, con quella tenera ingenuità snervante e appiccicosa che mi si è intrecciata tra le dita come lo zucchero filato che si mischia alla saliva e inizia a sciogliersi e si infila sotto le unghie senza mai andarsene davvero del tutto.
Quella notte non ho potuto fare altro che aspettare che tutto finisse. Ho spento la luce prima del solito, ho cercato di riempire il vuoto del mio appartamento con il sonno accumulato da una vita, quello che mettevo da parte per un’occasione importante. Mi sono inevitabilmente ritrovata a contare i giorni che mi separavano da te, quelli che avevamo già passato distanti e quelli che avevamo trascorso vicini, ho calcolato quante altre ore avrei dovuto aspettare per poter essere io quella che ti avrebbe cercato tra la gente accorsa al binario di quella piccola stazione di provincia, ho fatto respiri profondi fino a dimenticare dove mi trovassi.
Mi sono ripetuta i mantra delle promesse che ci siamo fatti, ho cercato di ricordare che questo è ciò che abbiamo sempre voluto, una vita in due, ma libera da costrizioni e catene arrugginite di convenzioni sociali. Entrambi avremmo avuto una nostra individualità ben definita, ma saremmo sempre tornati l’uno tra le braccia dell’altra, prima o poi.
Tre settimane fa ho fatto sesso con un altro uomo.
Era da due anni che non succedeva.
Sono arrivata a casa sua in tarda serata, mi ha invitata a occuparmi del suo gatto bianco mentre preparava due bicchieri di rum guatemalteco. Non sapevo nemmeno che in Guatemala producessero rum. Troppo dolce, troppo poco forte, troppo poco.
Abbiamo parlato di viaggi ed errori di gioventù, di quando lui si era rifugiato in un convento durante un acquazzone e di quando io ero stata in Irlanda.
Abbiamo riso, il gatto mi ha graffiato il dorso della mano destra, se guardi bene si vede ancora il segno.
Siamo andati in camera da letto senza guardarci. Mi sono spogliata da sola, in fretta, non tanto per desiderio quanto per voglia di finire il prima possibile. No, non perché mi sentissi in colpa, o perché avevo bisogno della mia piccola vendetta. Avevo solo bisogno di farlo, senza troppi complimenti o convenevoli.
Ho dormito nel suo letto, tra lenzuola che molto probabilmente avevano abbracciato qualcun altro la notte precedente. Lui mi ha tenuta stretta a sé in maniera impacciata e fredda, come si fa quando alle grandi riunioni di famiglia si saluta quella zia di terzo grado di cui non ricordi il nome. Ho dormito poco, ma profondamente. La mattina dopo mi sono lavata i denti mettendo il dentifricio sulla punta dell’indice, avevo dimenticato lo spazzolino a casa. Mi sono vestita in silenzio, mentre lui cercava un calzino, dandogli le spalle.
L’ho rassicurato del fatto che non avrei passato il mese successivo a tartassarlo di telefonate e che il fatto non si sarebbe ripetuto, gli ho stretto la mano e sono tornata a casa mia.
Mi sono fatta un lungo bagno che tu avresti trovato troppo caldo, senza rimuginare su quanto fosse appena successo, né sui giorni a venire. Ho messo una maglietta a caso, e sono andata a dormire.
Non ti ho pensato neanche per un secondo.