“Piazza dei Martiri, ore 16 “. Così c’è scritto sul post it trovato sul parabrezza dell’auto. Cinque parole, sedici lettere ed una grafia inconfondibile. Nascondo velocemente il biglietto nella tasca della giacca, mentre mi guardo intorno per scrutare occhi indiscreti. Il piazzale è vuoto a quest’ora. Tiro un sospiro di sollievo e metto in moto l’auto. Come le è saltato in mente di fare una cosa del genere? E se qualcuno l’avesse vista? Se qualcuno lo avesse trovato prima di me? Gli interrogativi affollano la mente, uno dopo l’altro, mentre alla radio passano “How soon is now” degli Smiths ed il venditore ambulante cerca di sbarcare il lunario al semaforo. Osservo i suoi movimenti invisibili mentre zigzaga tra le auto ferme, vendendo fazzoletti in cambio di sogni. Non ho mai desiderato essere qualcun altro come in questo momento. Guardo l’orologio. Sono le dodici. Ho ancora tempo.
Questa mattina è la quarta volta che provo a telefonargli ma non risponde. Il cellulare è fuori uso. Come la nostra storia. Sorseggio del succo d’arancia mentre cerco di trovare la quantità di respiro necessaria a trasformare in voce quel discorso che prende vita nella mia testa da ore. Cosa sono ormai per te? Cosa vorresti che diventassi? No. Forse, se comincio in questo modo, lo intimorisco. Forse dovrei cercare di essere più vaga, prenderlo per mano e condurlo piano al centro della quantità di parole che vorrei urlargli. Un po’ come quel vecchio vaso di vetro di mia nonna. La sua forma mi ha sempre impressionata : un insieme di cerchi concentrici che diminuivano di diametro man mano, fino ad arrivare al centro. ‹‹ Piccerè, à vita è comme a chistu vaso ›› mi diceva mentre travasava l’acqua per i fiori ‹‹ tieni a fa nu giro immenso, primma de arrivà addò ‘vvuò tu››. Prendo il cellulare e ricompongo il numero. Staccato. Richiamo. Staccato. Richiamo. Staccato. Cerco di tenere a bada la rabbia che mi sta nascendo dalle budella , espirando aria dalle narici. Sempre più lentamente. Stacco un post it vergine dalla parete ed esco di casa sbattendo la porta. Sono le dieci del mattino.
Parcheggio l’auto in cortile. Veronica sta annaffiando le piante.
‹‹ Amore cosa ci fai a casa a quest’ora? ›› mi dice sospresa.
‹‹ Ho chiesto di tornare a casa prima. Non mi sento molto bene››, le rispondo preparando il campo della menzogna.
‹‹ Se mi avessi avvertito, ti avrei preparato qualcosa. Vuoi che chiami il Dottor Calenda?›› la sua apprensione mi arriva diritta in petto, mi squarcia vivo.
‹‹Non preoccuparti, tesoro. L’ho già fatto. Ho appuntamento alle sedici›› le dico passandole una mano tra i capelli, baciandole la fronte e tentando di essere credibile. La lascio canticchiare tra i ciclamini piantati quest’estate e mi butto sul letto. Affondo il viso nel cuscino, mi privo dell’ossigeno fino al punto da non averne più abbastanza. Riesco a sentire i battiti accelerati del cuore e le tempie mi pulsano come seguissero una musica immaginaria. Mi sto punendo. Come ho fatto ad arrivare a questo punto? Quella donna conosciuta al bar, il suo odore di vaniglia e miele. Ci sentiamo, allora. Ho voglia di fare l’amore con te. Il suo sospiro nelle orecchie. Le lenzuola scolorite del Residence. Sono sposato. Ci rivediamo se ti va. Le sue unghie sulla schiena. Sono sposato. I suoi gemiti nella testa. Sono sposato. Sono innamorata di te. Sono sposato. Ti amo.
Tiro via il cuscino con violenza. Annaspo. Respiro.
Le quindici.
Forse fa troppo caldo per questo vestito. Forse è eccessivo. I volà mi stanno graffiando la pelle nuda ma era questo quello che indossavo quando l’ho incontrato per la prima volta seduta al tavolino del bar. Dio, che voglia di vederlo. E se non arriva? L’attesa mi toglie l’ossigeno. Mi gira la testa. Una bambina seduta al tavolo di fronte si macchia con del gelato alla fragola e scoppia a ridere. Che bel rumore che hanno le risate. Sono sempre così vere. Uno squarcio di spontaneità in un universo di irrealtà. La osservo invidiandola, mentre il trucco cola via e le mani non smettono di intrecciarsi nervose. Se la sedia resta vuota saprò di non essere abbastanza.
E’ lì. Secondo tavolo al lato della vetrata. La osservo da qualche minuto seduto su un muretto. Si morde le labbra e le mani non smettono di sfregarsi. Ci separa qualche metro ma non può vedermi. E’ bellissima. La distanza tra me e lei è insormontabile. Mi basterebbe percorrerla per toglierle di dosso quella paura che sento vibrare fin da qui. Due amiche parlottano davanti alla vetrina di un negozio, una donna raccoglie la spesa caduta in strada. La vita che scorre davanti ai nostri occhi e un tratto rettilineo sul selciato è tutto ciò che resta tra me e lei. Un pezzo di asfalto rovente separa la verità dalla menzogna. Mi alzo. Frugo nella tasca. Lo osservo un'ultima volta e mi immergo nel fiume umano.
Non posso.
Poco più in là una donna raccoglie la spesa caduta in strada, un biglietto rotola tra i pomodori. Lo stende per bene tra le mani e lo legge.
"Piazza dei Martiri, ore 16".