Con un colpo secco della lama verso il basso la fiorista libera il gambo della rosa dalle spine e dalla sua guaina scura. Resta tra le sue mani il bocciolo sullo stelo nudo e uniforme, orlato solo in alto da un corteggio di foglie sottili. Prima di appoggiare delicatamente la rosa di lato sul bancone di marmo umido, la porge verso il viso del ragazzo che occupa lo spazio al di là del bancone, come un’immagine speculare.
Lui scruta con intensità la cima del bocciolo e il volto quasi fanciullesco di lei, simmetricamente radioso dietro il fiore. Appena lui annuisce muovendo il capo quasi impercettibilmente, lei appoggia leggera la rosa di lato. La sfila come un guanto dalle sue dita affusolate e appena arrossate dal freddo e ne prende un’altra, per ripetere l’operazione.
Con un cristallino sivùplé madame la fiorista ha intercettato lo slancio con cui mi stavo catapultando nella fioreria, chiedendomi con garbo di sostare fuori dalla porta, in attesa che il ragazzo delle rose terminasse il suo passaggio. Mi sono assestata nell’attesa.
Le due erme di giovinezza confabulano sporgendosi l’una verso l’altro, lui scrutando le rose denudarsi nelle mani di lei, lei offrendo alla vista di lui la sua perizia impeccabile e fulminea.
Ad ogni rosa spogliata lei si rivolge a lui, senza parole, a chiedere un assenso. Metto a fuoco e capisco che a essere valutata è la chiusura del bocciolo. Lui annuisce con la testa e le si avvicina ogni volta, forse senza accorgersene.
Scarmigliata, lei si muove con grazia aerea in uno spazio minuscolo, invaso da fiori freschi recisi, riposti in vasi colorati, che si alternano a degradé lungo la parete dietro, come i tasti di uno xilofono. Sotto gli occhi che nuotano nell’azzurro la mascherina pervinca si muove sul suo viso seguendo onde sinuose, accentuate dalla penombra di fasci di luce soffusa tutt’intorno. Davanti a lei il bancone, con la postazione per il cliente, circondata da piante.
Quasi un monolocale giapponese, la fioreria strabocca di fili, foglie, petali, boccioli, corolle, un tripudio di rosso, giallo, rosa, bianco, azzurro. Le pareti rosa antico restituiscono all’occhio la densità dei colori caldi e del profumo dell’inverno.
Comincio a sentirmi inquieta. Ma non riesco ad andarmene.
Ad un tratto lei - Gisèle? Céline? Aurélie? - volge la testa verso di me interrompendo per un istante il flusso che la avviluppa al ragazzo delle rose e, come se iniziasse a cantare, intona un «Di che cosa si tratta, madame?».
- «Della pianta che ho comprato qui prima di Natale» - rispondo, supplicando intimamente che se ne ricordi. Annuisce con un sorriso lievissimo.
- «Le punte delle lunghe foglie sottili a filo si stanno seccando». La mia voce è accorata, non riesco a fermarmi - «Mi aveva detto di darle dell’acqua ogni due settimane, che cosa devo fare adesso?». Parlo come se si trattasse di un essere umano. Agitata. Preoccupata. La voce quasi rotta.
«Madame» - intona lei in un unico respiro, mettendo la mani a cerchio davanti a sé - «il y a la pratique et il y la botanique». «C'è la botanica e c’è la pratica» - mi dice invitandomi dentro la vita naturale del suo mondo.
Mi aggrappo ai suoi occhi smarrita, come in preda a un abbandono imminente.
Con un guizzo dello sguardo, tenendo ben sotto controllo la tensione che arriva dal ragazzo dei fiori, mi illumina:
- «Apportelamuà, Madame!», con un muà che rimbalza leggerissimo nell’aria, tra i fiori. «Me la porti, signora, che la vediamo insieme!».
Incredula, faccio eco alle sue parole, almeno due toni sopra: «Gliela porto?!».
Con gli occhi che ridono la fiorista soffia nell’aria un «Mais oui, Madame! », che si sparge tutt’intorno come il ritornello di una canzone.
Nel flusso di gioia che mi si insinua nella gola si fa strada un “merci” pieno di grazia. Prima che lei - Aurélie? - rifluisca scomparendo dentro la dedizione al ragazzo delle rose vibrano nell’aria il mio aurevoir e la promessa del ritorno.
Esco scivolando nel nitore dell’inverno. Mi volto e guardo dentro la fioreria attraverso la vetrina invasa dai colori.
Il sorriso di lei si irradia dal fondo fino a illuminare la sorpresa disegnata dalle lettere dell’insegna del negozio, allineate sul vetro: Poppymood.
Non riesco a tradurla. Però posso cantarla.