La mattina dell’incidente, non assaporai con calma il mio caffè, non mi feci la barba, non mi lavai i denti e non salutai mia moglie, né guardai negli occhi il nostro cane prima di uscire.
Ma mi alzai di fretta, andai a controllare la posta elettronica e gettai un rapido sguardo oltre la finestra, per poi lamentarmi del brutto tempo.
Non scelsi accuratamente la camicia da indossare, ma presi semplicemente la stessa che avevo indossato il giorno prima, e forse quello prima ancora, e che avevo dimenticato sulla poltroncina verde petrolio della nostra camera.
La mattina dell’incidente, indossavo una camicia sgualcita e il mio alito puzzava e continuavo ad imprecare per il maltempo.
Non mandai al diavolo il mio capo che mi voleva lì entro venti minuti mentre io dovevo ancora assaporare il mio caffè e farmi la barba e scegliere cosa indossare e lavarmi i denti e provare ad apprezzare persino un giorno di pioggia e soprattutto guardare negli occhi il mio cane e salutare mia moglie prima di uscire.
Malgrado avessi già 40 anni, non avevo ancora deciso che cosa fare da grande e conoscevo bene il significato del termine “figlio”, ma non ancora quello di “padre” e tutto ciò che sapevo fare era obbedire al mio capo e a tutti i suoi capricci.
Quando arrivò, non avevamo ancora ultimato il progetto della nostra nuova casa, né fatto il viaggio che sognavamo da una vita ed io non avevo neppure imparato a chiedere perdono.
Stavano a quel punto le cose, quando uscii di casa e chiusi la porta alle mie spalle e mi incamminai verso il vialetto, ancora imprecando per il maltempo, ed entrai in macchina, dopo aver rischiato di scivolare almeno un paio di volte.
Arrivò quel giorno e mi trovò così: puzzolente e impreparato e senza ancora averle confessato il gran segreto.
Si è trattato solo di imboccare male una curva e probabilmente lo stesso aveva fatto il tir di fronte a me.
Lo stereo dell’auto stava ancora suonando a tutto volume il mio pezzo preferito quando vennero a recuperare il mio corpo riverso a faccia in giù in una pozza di pioggia mista a sangue.
“E a modo mio, a modo mio, sono contento un giorno anch’io… e a modo mio, ringrazio Dio, oggi la storia la faccio io, a modo mio!”
Avevo sempre saputo che sarei morto in un giorno di pioggia mentre da qualche parte suonava, malgrado tutto, un inno alla vita.
Ogni cosa era immobile ed in silenzio quando mi gettarono addosso qualcosa, forse un lenzuolo, e mi portarono via.
Provavo a dire loro che non avevo tempo da perdere, che il capo mi stava aspettando in ufficio e che dovevo ancora assaporare un ultimo caffè e terminare la nostra casa e avere un figlio e dire a mia moglie che la amavo anche se le stavo nascondendo quella cosa da ormai troppo tempo, ma che non contava niente perché io la amavo davvero…
Ma le parole rimasero incastrate nella mia bocca serrata, muta, morta.
Non avrei più avuto altre occasioni, morirono tutte insieme a me in quella mattinata piovosa e non ce ne sarebbe più stata un’altra in cui poter scrivere nuove frasi o correggere vecchi errori commessi in qualche pagina precedente.
Così, pensavo a questo mentre mi portavano via.
Vivere non mi era mai venuto facile, ma forse morire ancora meno, perché solo allora realizzai che a volte in questa vita siamo già morti prima, ben prima del nostro tempo.