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Umoristico

Prime case e altri disastri

Pubblicato il 18/03/2023

Di prime case, ferramenta, atti notarili e vestiti, ovvero gioie (tante) e dolori (pure) di una trentenne media.

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Uno dei pensieri più insensati e al contempo più martellanti, quantomeno per una trentenne sedicente arrivata, risolta e frivola, al momento dell’acquisto della casa, la prima casa, quella per la quale stai organizzando da mesi la festa di inaugurazione, è “cosa mi metto il giorno del rogito”. Pensiero che si fa tarlo se la casa hai pure deciso di ristrutturarla, follia che porta a rivalutare la legge Basaglia.

Quando ti imbarchi nell’impresa pensi solo al Fuorisalone, alle riviste di design, e a far sembrare il tuo attico in Area C degno della Prima della Scala; sei troppo obnubilata dalle foto di vasi fioriti a dicembre per ricordarti che hai solo un appartamento al secondo piano in periferia, e che la parola “ristrutturazione” implica ore spese nell’hinterland in luoghi quali “Ferramenta King”, “Pianeta Casa”, “Universo Casa” (per chi vuole fare le cose in grande), e che tali posti prevedono un rigido dress-code composto di: Converse che hai dai tempi delle medie ma che non ti decidi a buttare perché troppi ricordi; jeans stinti che un tempo erano skinny ma che ora ti ballano addosso, forse perché a forza di peregrinare hai cambiato taglia, forse perché tentando di togliere le tracce di [inserire materiale edilizio a scelta] hai fatto dei danni irreparabili; felpa pure stinta rigorosamente di pile e di tre taglie più grandi.

All’inizio vivere in questa condizione a metà fra lo smart working e il degrado tout court ti sembra divertente; dopo qualche tempo sviluppi con la felpa una relazione non dissimile dalla sindrome di Stoccolma.

Ecco perché, dopo una gestazione in cui i tuoi contatti si sono ridotti a “Gianni Muratore”, “Ivan Vetro Doccia”, “Ugo Idraulico”, gente che ti disprezza nonostante tu faccia di tutto per fingere di capire il funzionamento di un quadro elettrico, il giorno del rogito assume la stessa epicità del D-Day: vado a fare una cosa da adulti, devo vestirmi bene. È superfluo dire che nessuno noterà la gonna di pelle, né la camicia che hai pure fatto stirare.

Ebbene: dopo la quantità spaventosa di firme che hai apposto si susseguono nella tua testa sentimenti incoerenti: felicità, terrore, stanchezza. Queste montagne russe emotive tali da far impallidire Madame Bovary ballonzolano su e giù per lo stomaco tutto il giorno, finché non arrivi a una conclusione: mi serve una coccola. Un vestito nuovo, un ritorno alla vita. Tanto ne ho spesi talmente tanti, senza neppure capire per cosa, che non sarà questo momento da bimba viziata a mandarmi in malora.

Ti avvii quindi verso uno dei tuoi posti del cuore, ed ecco che le stelle decidono di allinearsi contro il tuo portafogli. Punti un vestito, lo provi, ti piace, ma la commessa non si limita a dirti “Ti sta bene”, no, si lancia in un iperbolico “Prima che lo provassi tu non mi diceva niente, GLI HAI DATO LUCE”. Mentre cerchi di capire se quella che si rivelerà la tua più grande fan lavori a percentuale, le chiedi un secondo abito, che pure avevi mirato da tempo; e qui, il tocco da professionista. Non un laconico “Bellissima”, non un abusato “Wow”, ma un ben più articolato “Ovvio che ti sta bene, ma MERITI DI MEGLIO; fammi cercare, quello che ho in mente o lo metti tu o non lo mette nessuno”. Mentre ringrazi i vagabondaggi tra i rubinetti e la conseguente forma fisica stellare, e mentre la tua nuova migliore amica si inabissa nel magazzino, a rendere il tutto ancora più surreale dalla sezione “Spose” si affaccia una perfetta sconosciuta, insaccata in una meringa gigante, chiedendoti un parere perché “mi pare tu ne capisca di moda”. Soprassiedi, mentre guardi i pargoli della futura sposa annoiarsi a morte in mezzo a strati di tulle.

Stai iniziando a chiederti se non sia il caso di dare un’altra chance ai jeans stinti, quando ecco che la commessa riemerge dalle tenebre con un oggetto misterioso. “Non è il mio genere” – “Provalo” – “Davvero” – “PROVALO”, con un tono che non ammette repliche. Ti infili nel camerino, lotti per qualche minuto con un insieme di bottoncini degno di una tortura cinese, finalmente riesci a far sbucare la testa dall’orifizio corretto e a vederti nello specchio. Ed ecco il miracolo: sarà che sei particolarmente indulgente con te stessa, sarà che ormai ci vedi triplo, ma ti crolla la mascella da quanto ti piaci. “Visto?” si limita a sorridere la tua nuova psicologa.

Tentenni qualche istante, combattuta tra il pauperismo e l’edonismo; poi ti volti, vedi la meringa che annuisce sorridendo, ti sembra bella pure lei, guardi i bambini, realizzi che per male che possa andare il resto della tua vita ci sarà sempre qualcuno con problemi più grossi dei tuoi da risolvere, che se ce la fanno loro ce la farai anche tu; e che un bel vestito sarà senza dubbio d’aiuto per affrontare tutto questo. Sorridi pure tu, estrai il portafogli dalla tua adorata felpa che però non metterai mai più, e te ne vai.

Con tre vestiti: perché visto che non resterai una trentenne quasi-arrivata, quasi-risolta e quasi-magra per sempre, allora tanto vale approfittarne.

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Raffaele 57 ha votato il racconto

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LL ha votato il racconto

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Isabella Ross ha votato il racconto

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Urbano Briganti ha votato il racconto

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Uno stile unico e magistrale. Raramente avevo incontrato un testo di narrativa così perfetto: fluido, frizzante, realistico, ma non pedante, vivace ma non banale, pregevole nella scelta lessicale oculata e sempre originale, mai scontata, spesso inaudita, almeno su questi "lidi" (o schermi). Scoppiettante in tutto, riesce a rendere insolito e inusitato un banalissimo tema o soggetto iperinflazionato, facendolo apprezzare anche ad uno come me, agli antipodi, proprio e grazie al sapiente e frizzante uso lessicale come non si leggeva da tanto, tanto tempo. Sentiti complimenti Segnala il commento

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di francesca.berneri

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