L’Uomo Nero arrivò, com’era aduso, nel cuore della notte.
E come di consueto, la casa era silenziosa, immersa nella coltre piombigna del sonno.
Si diresse con sicurezza verso la stanza del piccolo Ernesto, ché nel buio pesto era a suo agio più che alla luce del giorno, grazie anche a un sonar da pipistrello che in tempo reale proponeva nel suo cervello una mappa dell’ambiente.
Il suo abbigliamento era costituito da una tuta nera aderente, un cappuccio pure nero con piccole fessure per gli occhi, guanti neri, e speciali scarponcini tattici, ovviamente neri, dotati di una suola vellutata particolarmente adatta per muoversi su qualsiasi superficie senza fare il minimo rumore.
Visto alla luce sembrava un deficiente, anche per via di qualche chilo di troppo dovuto a un amore per i canederli con la birra scura, una passione che gli conferiva una sagoma tipo quella di un merlo, data la magrezza delle sue gambe. Ma era nell’oscurità che esprimeva la sua capacità di provocare terrore e, peggio che mai, di insinuarsi nei sogni degli sventurati bambini paurosi, oggetto delle sue attenzioni.
Entrò nella cameretta con l’intento di seguire la procedura, ossia di infilarsi sotto al letto, ma dopo un solo passo urtò dolorosamente qualcosa all’altezza dei garretti.
«Ahia, vacca porca che male!» Esclamò. Fortunatamente, Ernestino dormiva della grossa e lo rassicurò sapere che gli adulti non potevano sentirlo né vederlo.
Un dolore acuto dalla tibia s’irradiava, come accade come quando si picchiano le ossa malamente. Stava pensando: cosa diavolo c’è qui che non ho visto… e nemmeno il sonar mi ha segnalato! quando una voce lo fece sobbalzare.
«E che è ‘sto casino! possibile che non si possa dormire in pace?»
Lo sguardo dell’Uomo Nero cadde in basso, accanto al comò, e vide che un cassetto era aperto ecco lo spigolo dove ho battuto la gamba. Nel cassetto, adagiato tra i maglioncini del piccolo, c’era un orsacchiotto che lo fissava con uno sguardo torvo, complice anche un occhio che gli avevano quasi cavato.
«E tu chi accidente sei?» domandò il Nero un po’ seccato.
«Sono Teddy l’orsetto, ma piuttosto chi sei tu? visto che io vivo qui e non t’ho mai visto»
«È una lunga storia…» stava iniziando a rispondere l’uomo quando si bloccò «ma perché mai dovrei parlare con un pupazzo, e poi come fai a sentirmi… mi vedi anche, magari»
«Certo, ti vedo e ti sento benissimo, anzi, non sbraitare ché il pupo dorme»
«Va bene» disse il cupo figuro, abbassando la voce, «ma tu sei solo uno stupido peluche, mica sei animato, com’è che parli?»
«Piano con le parole. E se proprio vogliamo vedere, tu non esisti: eppure, eccoci qui a discutere». Sentenziò Teddy bear, con un certo sarcasmo ursino.
L’uomo Nero, rimase attonito un istante, poi replicò: «Come sarebbe che non esisto? Sono l’Uomo Nero…»
«Sì, vabbè» l’interruppe l’orso «ma non è che esisti davvero, sei un’invenzione della fantasia, o per meglio dire, della psiche infantile, la stessa che da vita a me per capirci. Con la differenza che io, per lo meno, un corpo ce l’ho, tu neanche quello»
«D’accordo, ammettiamo pure che sia così, resta il fatto che adesso sono qui e ho intenzione di fare il mio mestiere, hai forse qualcosa in contrario?»
L’orso tentò di grattarsi il capo, ma gli avevano fatto le braccia corte e non riusciva a darsi soddisfazione. Poi, sempre guardando il nuovo venuto disse: «in effetti io sarei buono di indole, se vogliamo, sono una compagnia, ma se devo essere onesto questo bambino non mi è troppo simpatico: intanto è un piagnone, mette giù certe tragedie che non ti dico, e poi anche con me non è che si comporti proprio bene, non so se hai notato dove mi mette a dormire?»
«Be’ sì, l’ho notato» convenne l’Uomo Nero, con la tibia dolorante.
«Ti faccio una proposta: lascerò che tu faccia quel che devi, ma voglio partecipare anch’io»
«Cos’hai in mente?»
«Ascolta bene cosa faremo…» Teddy iniziò a bisbigliare il suo piano all’orecchio dell’Uomo Nero.
Quando Ernestino si svegliò urlando e piangendo, la mamma accorse.
«Cosa succede tesoro, hai fatto un brutto sogno?» Chiese con apprensione.
«C’era l’Uomo Nero, mi fa paura…» rispose il frugoletto, con la voce rotta dal pianto.
«Oh, povero piccolo, ma adesso la mamma è qui, non hai niente da temere»
«… e poi c’era anche il mio orsacchiotto, quello stronzo, che mi prendeva in giro»
«Ma come, Ernesto, non si dicono certe parole!»
«Ma l’ha detto anche l’Uomo Nero che Teddy è stronzo»
«Insomma Ernesto! L’Uomo Nero non esiste. E il povero Teddy è dove lo hai messo a dormire da quando gli hai quasi staccato un occhio e non lo vuoi più nel letto. Non è che ti stai inventando tutto?»
«Ma no» riprese l’Ernesto disperato «ti dico che l’orso mi prendeva in giro: dicendo che sono un fifone e l’Uomo Nero, che mi spaventava, gli ha detto che era uno stronzo e doveva farsi i cazzi suoi!»
«Oh, adesso basta! Ora dormi che domani c’è scuola. Poi, di sta cosa delle parolacce ne riparliamo con il papà».
La mamma uscì e spense la luce.
Teddy e l’Uomo Nero andarono in cucina per farsi una birra.