Quando sorrideva, sorridevo anch'io. Tanto bastava per farci compagnia. Allargava la bocca mettendo in bella mostra i suoi incisivi accavallati. Aveva il palato stretto, Michele. Quando pronunciava la lettera esse emetteva un sibilo ridicolo e io, puntandogli l'indice in faccia, ridevo piegandomi sulle ginocchia. Lui borbottava qualcosa e non mi rivolgeva più la parola. Poi quando gli passava il broncio mi tirava un pugno sul deltoide e si impettiva d'orgoglio.
Abitavamo sullo stesso pianerottolo di una vecchia palazzina di periferia e le nostre camere erano separate da uno stupido muro sottile. Quando la sera andavo a dormire, prima di tirare a me il lenzuolo, mollavo un pugno alla parete accanto al letto e lui rispondeva alla stessa maniera. Quella era la nostra buonanotte. Al mattino, infilati i piedi nelle ciabatte, mi precipitavo a spalancare la finestra e urlavo: "Michele", con tante e finali. Dopo neanche un minuto vedevo i suoi denti incidentati fare capolino: un secco "Francé ". Questo era il nostro buongiorno. Passavamo intere giornate così, a studiare, a parlare e a giocare affacciati ognuno dalla propria finestra senza balcone, come due fratelli inseparabili, divisi solo da uno stupido muro di mattoni.
Non appena vedevamo passare un cane o un gatto iniziavamo a sputare, prendendo la rincorsa col busto e slanciandoci in avanti. Vinceva chi per primo colpiva il bersaglio. E ovviamente vincevo io perché avevo una gittata più forte. Michele, invece, a causa della sua bocca sgangherata arrivava perfino a sputarsi addosso e io gli urlavo: "scemo, scemo, scemo". Allora, per non fare la figura del fesso, mi sfidava a racchette, sempre giocando affacciati dalla finestra. Chi faceva cadere la pallina per strada, precipitata dall'alto del quarto piano, non solo perdeva un punto ma doveva scendere giù per le scale a raccoglierla. Era vietato usare l'ascensore. Queste erano le regole del gioco.
Mi faceva fare un sacco di sudate Michele. Era bravo con le racchette, Michele. E con la sua esse moscia, urlava al quartiere: "Sono forte, sono imbattibile, si". Quel giorno stavo perdendo per un punteggio di 6 a 0, vale a dire che feci migliaia di gradini nel giro di pochissimi minuti. Scendevo e salivo. Scendevo e salivo. Scendevo e salivo. Scendevo e salivo. Le gambe tremavano. Il cuore rimbalzava impazzito nella cassa toracica e le tempie premevano contro il cranio. Dopo la sesta volta consecutiva, quando arrivai alla finestra grondante e con il sole che mi graffiava gli occhi, sentii salire dentro di me, come direbbero in Malaysia, l'amok e una specie di foga agonista mista ad una vendetta prese il controllo del mio corpo. Mi affacciai dalla finestra, inferocito. Michele rideva coi suoi denti ridicoli, compiaciuto. Gli lanciai uno sguardo cattivo. Feci un ghigno. Presi con la mano sinistra la pallina in gomma blu. La osservai qualche secondo. Un rigagnolo di sudore mi rigava la punta del naso. Michele, ora, mi guardava attento, pronto a ricevere. Lanciai a mezz'aria la pallina. Il mio braccio destro caricava tutta la tensione, come quando si tira indietro l'elastico di una fionda. Le rondini affollavano il cielo. C'era l'odore dell'erba appena tagliata e mamma che puliva casa. Colpii la pallina e urlai inferocito: "Prendi questa, Micheleee". Chiusi gli occhi. Bruciavano di sudore. Prima ancora che gli aprissi, sentii un rumore strano che mi fece rabbrividire. Restai con gli occhi chiusi, non ricordo per quanto tempo. D'un tratto il cuore iniziò a rallentare. Sentivo il rumore dei battiti nei timpani accompagnato da un fischio. Un affanno misterioso mi faceva indietreggiare verso il letto. Sentii le urla di una donna provenire dalla strada. Dei rantoli si aggrappavano alla mia finestra. Riaprii gli occhi e notai i peli della peluria dritti come antenne. Mi misi una mano dietro al collo freddo. Guardai disgustato la racchetta nella mano destra e la buttai d'istinto per terra come fosse una pistola fumante. Tremai e cosa accadde dopo non lo ricordo più.
Sono passati dieci anni da quel giorno. È una data che ricordo come se fosse il mio compleanno. Michele si sbilanció per fare uno stupido punto in più. Io gli tirai la pallina in quel modo così cattivo per annullare i suoi sei punti consecutivi. Guardo alla mia vita ritornando sempre a quei momenti. Lo vedo che ride con quei denti come un coglione. Avremmo potuto fare un gioco diverso. Michele, perché? Può darsi che il destino di una persona sia una pagina già scritta o una foglia che si libra nell'aria e si posa su un punto qualsiasi. Può darsi entrambe le cose. Te ne sai andato così, Michele. Senza avvisare.
Anche se ho cambiato casa, tutte le sere gli occhi si gonfiano di lacrime e quando tiro le coperte a me, batto sulla parete un pugno e aspetto. Mordo il cuscino. Non lo accetto. Batto un altro pugno. Non c'è nessuno che mi dà la buonanotte in quel modo come facevamo noi. Ciao Michele.