Ho messo a posto le tue scarpe.
Le ho riposte sul piano più alto dell’armadio, quello che per arrivarci devo salire in punta di piedi su una sedia. A te la sedia non è mai servita, e anche per questo le lasciavi lì le scarpe, in alto, sopra le tue camicie e le cravatte, tutte rosse.
Non è lì che dovrebbero stare, ti dicevo. Tu alzavi le spalle e mi accarezzavi la nuca per farmi sentire piccola piccola, e io diventavo una formica sotto il peso delle tue dita.
Calpestano polvere tutto il giorno, dicevi, si meritano un po’ di panorama.
A volte lasciavi addirittura l’anta dell’armadio aperta perché non rimanessero al buio, e di tanto in tanto pensavo che forse un po’ pazzo lo eri anche tu.
Stamattina ho messo via le tue scarpe, e le ho messe in alto perché ormai è il loro posto, mi sono rassegnata. Però io l’armadio l’ho chiuso. Due volte.
La prima volta, sono scesa dalla sedia, l’ho spostata giusto il necessario e ho chiuso l’anta. Ho sentito il toc, l’ho vista sbattere, legno contro legno, chiuso, archiviato.
Poi ho riportato la sedia in sala, accanto alle altre, e le ho raddrizzate tutte, ognuna al suo posto, precise al centimetro perché se no mi esplode la testa e grido e urlo e piango, o magari mi blocco solo, e bloccata posso rimanerci una giornata intera se necessario.
Una volta ti ho chiesto di pranzare in piedi per non dover spostare le sedie: erano bellissime intorno al tavolo, simmetriche, ordinate, non potevamo rovinare tutto per una convenzione sociale come il pranzo. Ti prego tesoro, non sediamoci oggi. Ti ho pregato e tu sei scoppiato a ridere. Dio, dio, dio quanto ridevi. Sei proprio pazza, hai detto. Poi hai spostato una sedia, quella a capotavola, la sua gamba ha sbattuto contro quella metallica del tavolo. Hai mangiato, forse hai parlato, non con me però. Io non c’ero più in quella sala, sentivo solo una voce che mi urlava in mezzo agli occhi, e urlava, urlava, urlava che la sedia doveva tornare dove stava prima, doveva tornare dove stava prima. Rimasi gelata per un’ora a fissarti le spalle, a immaginare in quanti modi avrei potuto ucciderti, liberarmi del tuo flaccido corpo e finalmente riportare l’ordine in casa. Nella mia testa sei morto con un coltello tra le scapole.
Ho riposto le tue scarpe e poi ho rimesso la sedia al suo posto. Mentre la allineavo alle altre, in modo che tutte le sedie fossero alla stessa distanza dal tavolo, ho risentito una voce, forse più un sibilo sottile, e l’ho sentito penetrarmi nel cervello. Hai chiuso l’armadio? L’ho chiuso, ho sentito il toc, legno contro legno, anta contro… Ma l’hai chiuso l’armadio? Dio, dio, dio, io ho sentito, ho visto, legno contro anta, io…
Stamattina ho chiuso l’armadio due volte: la prima dopo aver riposto le tue scarpe, la seconda perché il dubbio ha sibilato violento in me.
Tu questa voce che mi risuona in testa non l’hai mai capita. Non posso biasimarti, al tuo posto forse anche io avrei dubitato; ma tu non hai mai neanche tentato di credere che dentro di me potesse davvero esistere un’altra me, questo puntiforme agglomerato di ossessività che se ne sta da sempre seduto in mezzo ai miei occhi, che mi muove come la marionetta che sono. E la sua voce è orribile, una voce che mi insinua dubbi costanti, che mi dice di urlare e io urlo, mi vuol fare impazzire e io divento una furia, poi tu mi dici pazza e allora forse pazza lo sono davvero e grido e urlo ancora, di nuovo, piangerò per sempre.
Ma tu ora sei scappato, hai avuto paura di me e sei corso via, ora pazza non me lo dirai più, magari io non lo sarò più. Magari.
L’ho sempre saputo che sarebbe finita tra noi, me lo ripetevo davanti allo specchio, questo non è vero amore, vedrai che finirà, sempre che non sia già finito senza che te ne rendessi conto, se non è già morente. Ma ora che è finito davvero, sento che la voce, quella che troneggia in mezzo ai miei occhi, si fa sempre più insistente, riuscirà a dominarmi. Da quando sei uscito stamattina per andare al lavoro, salutandomi con quel bacio sulla fronte, ho sentito la forza del tuo addio non detto, ho capito subito che non saresti più tornato, e da allora la voce si è fatta potente in me, io sono lei, siamo unite in un folle intreccio da cui non posso più liberarmi perché tu non ci sei, codardo, sei scappato da me e mi hai lasciato sola, sola con lei, sole insieme in questa follia. Allora abbiamo messo via le tue scarpe, io e la voce, quelle che avevi abbandonato vicino all’ingresso, e poi abbiamo sistemato le sedie intorno al tavolo, abbiamo tolto le nostre lenzuola dal letto e siamo rimaste a fissare il materasso nudo. Insieme abbiamo immaginato per un attimo come sarebbe stato il mio corpo, il nostro corpo lì sopra, anch’esso nudo, senza questa maglietta stropicciata, senza le mutande di pizzo bianco che ci hai regalato, coperto solo da chilometri di pelle. E poi abbiamo sognato di svuotarci di tutto il mio sangue con due piccole incisioni sui polsi, profonde e simmetriche, abbiamo visto due chiazze allargarsi sul grigio del materasso e penetrare nel tessuto, disordine e caos, anarchia degli elementi. Ho avuto paura, della morte o forse del disordine, la voce ha taciuto per un poco e io ho potuto finalmente piangere.
Hanno suonato alla porta, tre volte, tre scampanellii perfettamente cadenzati, come piace a me. Osservo dallo spioncino e vedo una figura grossa, la testa è troppo in alto, vedo solo le spalle, larghe, e la cravatta rossa. Chi è? Chiedo. Sono io, rispondi.
Prima o poi i tuoi quotidiani abbandoni mi uccideranno.