Aurelio cammina nelle vie del centro, il bambino per mano.
C’è poca gente in giro - alla cena della vigilia manca una manciata di ore e i negozianti hanno già tirato giù le saracinesche.
L’aria è azzurra di pace, per questo sono usciti a quell’ora. Aurelio cerca la solitudine, l’occasione di guardare la meraviglia sul viso di Luca: riflesso nei suoi occhi, anche il nauseante sfavillio degli addobbi diventa bellezza.
Decide di arrivare fino alla piazza della stazione, dove dovrebbe esserci un albero di natale altissimo. E c’è, infatti. Aurelio calcola che sarà alto 20 metri, come venticinque Luca - immagina proprio una torre fatta con il suo bambino che regge sulle spalle un altro sé e così via, fino alla cima dell’abete. Sotto l’albero, l’amministrazione comunale ha piazzato alcuni grandi pacchi: scatoloni vuoti, rivestiti di carte colorate e decorati con nastri brillanti.
Luca lascia la mano di suo padre, si avvicina ai finti regali, li tocca, scuotendoli cerca di indovinarne il contenuto.
Per chi sono questi regali?
Cosa dovrebbe rispondere. È stanco Aurelio; vorrebbe sedersi, ma le panchine dalla piazza sono state eliminate. Una trovata brillante della giunta, allo scopo di scoraggiare i pusher. Che spacciano lo stesso, ma almeno stanno scomodi. In effetti è proibito sedersi ovunque, anche sui gradini delle chiese e delle case, sui muretti e sulle recinzioni. Anche sulle spallette dell’Arno. Una città in piedi.
Si accende una sigaretta, aspira a occhi chiusi mentre ascolta il rumore di un treno che entra in stazione.
Babbo - Luca lo sta tirando per una manica -, ho capito per chi sono.
I regali? Dimmelo allora.
Sono per quel vecchio che dorme.
Quale vecchio - Aurelio guarda Luca, segue la manina che si solleva a indicare un punto sotto l’albero.
Intravede qualcosa, gli sembrano scarpe. Si avvicina: sono suole di scarpe, sì, e contengono piedi. Sopra, due caviglie gonfie, livide, un paio di pantalonacci, un pastrano marrone, un volto vecchio, capelli lunghi grigi.
Un uomo.
Potrebbe anche dormire.
Aurelio si guarda intorno. Sciamano nella piazza i pendolari appena scesi dal treno. Alcuni proseguono in fretta, senza guardarsi intorno; molti si fermano proprio lì davanti, al capolinea degli autobus. Non sembrano accorgersi di Aurelio e Luca, accucciati sotto l’albero.
Babbo, c’è puzzo qui. E c’è pieno di mosche.
É vero, ha ragione Luca. Quel ronzio ininterrotto che Aurelio credeva provenisse dall’impianto di illuminazione dell’albero, è dovuto alle mosche. Sono migliaia. Che poi, d’inverno, le mosche…Ma a pensarci bene, nei cessi pubblici le mosche ci stanno tutto l’anno: devono essere proprio quelle - quelle che popolano i bagni della stazione, richiamate da un odore anche peggiore.
Babbo, lo svegliamo?
Aurelio si alza, si volta verso le persone che aspettano l’autobus, le passa in rassegna con lo sguardo, grida C’è un medico - ma quale medico tra questa gente infreddolita, tra questi visi da badante stanca con la tinta dei capelli fatta in casa, tra queste falangi noccolute. Alcuni gli vanno incontro, credono che abbia bisogno di aiuto, e lui fa cenno di no, no, non sono io, e indica il punto dov’è il bambino, e allora altri accorrono - Cos’hai, bimbo, ti senti male? - ma poi vedono l’uomo steso per terra: lo guardano con sdegno, o con timore. Si tappano naso e bocca con la mano.
Se ne stanno tutti lì nell'aria fredda, fermi in piedi come i cantori di natale, finché arriva il custode dei bagni pubblici, che non crede ai miracoli né ai detersivi, ma alle mosche sì, e sa che se le mosche l’hanno abbandonato un motivo deve esserci. Si fa largo, spintonando il gruppetto. Non gli fa schifo niente, a lui - Eh, sapeste quante ne ho visti, di questi qui. Sudici ubriaconi che vengono a vomitarmi nel bagno e non mi lasciano un centesimo - e con le dita magre scuote l’uomo, che reagisce come un grosso sacco della spazzatura: ballonzola quel tanto che basta per fare sollevare nugoli di mosche, e dopo un attimo è di nuovo inerte. Riprova, il custode, più forte. Le mosche infastidite si allontanano di qualche metro.
È morto. Bisogna chiamare la polizia.
Come, morto? - dice Luca - Che vuol dire.
Aurelio lo sapeva che sarebbero arrivati a questo punto, proprio a questa precisa domanda.
Vuol dire che è volato in cielo.
Che dici, babbo. Se eccolo lì.
Arrivano gli autobus, molti corrono via e salgono sulla vettura che li porterà finalmente a casa - frettolosi più di prima, impazienti di raccontare. Alcuni restano, per pena o curiosità.
Se almeno ci fosse la possibilità di sedersi, Aurelio prenderebbe Luca in braccio, su una panchina, e gli inventerebbe una storia. Perché Luca è pallido, e forse ha paura.
C’è poca luce ormai. Il custode dei bagni pubblici dice Ho finito il turno, me ne vado a casa.
Gli storni si esibiscono nel loro saluto alla giornata, nuvole multiformi alte sopra i tetti delle case.
Luca, vieni a vedere! Guarda che belli gli storni!
Il bambino esce da sotto l’albero, punta il naso al cielo. E dopo un minuto gli sembra che i nastri neri e formicolanti diventino più grandi, cambino forma.
Babbo, stanno scendendo!
Macché.
Invece sì, alcuni storni si avvicinano in picchiata, atterrano. Saltellano verso il morto. Una decina di uccelli si tuffa in mezzo alle mosche, in preda alla frenesia. Ne arrivano altri: zampettano sulla pancia dell’uomo, si azzuffano.
Aurelio ha il cuore che pompa troppo forte, lo sente battere anche nelle orecchie. Afferra con la mano sudata quella piccola di Luca - Dai, andiamo a casa che è tardi.
Luca resiste; non si muove, perchè ha visto altri uccelli in discesa. Merli neri, lucidi, prendono a volteggiare sopra di loro, si aggiungono agli storni. Ora il corpo del vecchio sembra la mangiatoia di una grande voliera. I becchi gialli dei merli sono pieni di mosche.
Gli insetti tentano di volare via, ma altri uccelletti, più piccoli, arrivano a prenderli in volo; Aurelio li riconosce: sono pettirossi, capinere, e si avvicinano a centinaia, con grida festose.
Un frullio di ali ricopre ora il cadavere dalla testa ai piedi: non è un drappo funebre: è vita vibrante, è volo. È volo.
Vedi, questo intendevo.
Cosa? Che lo portano su in cielo?
Proprio così, Luca. Dopo cena se vuoi torneremo, e vedrai che quell’uomo non ci sarà più.
Il bambino saltella eccitato, adesso ha le guance rosse per l’emozione.
Prometti?
Prometto.
Si allontanano tenendosi per mano, l’uomo inebetito e il bimbo felice, attraverso una nebbiolina fine fine.
Un usignolo sazio canta tra le fronde dell’abete.