Nyal, Upper Nile, South Sudan.
Sul campo ci siamo soltanto io e Ralph, il logista tedesco, gli altri componenti del team sono a Nairobi per il loro periodo di riposo: dieci giorni ogni sei settimane di lavoro.
La mattinata comincia malissimo.
Abbiamo appena finito di fare colazione, Ralph si sta dirigendo verso gli scavi per la costruzione di un piccolo reparto in muratura al posto delle solite capanne di paglia e fango, io sto andando all’ambulatorio per le visite della giornata: appena usciti dal nostro accampamento ci troviamo circondati da militari armati.
“Venite con noi”.
Non una parola in più, non una spiegazione, hanno già girato sui tacchi e noi per forza con loro.
Ralph è bianco come gesso, io mi sento il cuore in gola.
Siamo due formiche in un piccolo villaggio in mezzo alla palude più grande del mondo, non abbiamo modo di avvisare nessuno dei nostri responsabili, anziché a Nairobi potrebbero stare sulla luna, sarebbe lo stesso: a Nyal non ci sono telefoni, non c’è corrente elettrica, non ci sono strade, l’unico mezzo di comunicazione è la radio, ma alla base ci sarà qualcuno in ascolto soltanto fra quattro ore.
Nel frattempo potremmo già essere cibo per i coccodrilli, per quel che vale la vita umana in queste zone desolate teatro di un conflitto eterno.
A fianco a noi si materializzano improvvisamente i tre padri comboniani che vivono a Nyal portando avanti la loro missione.
Hanno capito che sta succedendo qualcosa di grave e sono accorsi in nostro sostegno: “Loro sono nostri amici, dove vanno loro andiamo anche noi” dichiara padre Fernando ai soldati e decisi tutti e tre si mettono in marcia con noi senza che i militari se la sentano di impedirglielo.
Un gesto di generoso coraggio che non dimenticherò mai.
Senza che venga scambiata neanche una parola in più arriviamo ad una capanna che riconosciamo come il centro di comando della zona.
Ad aspettarci Simon Kuol, il capo villaggio, e alcuni anziani.
Veniamo fatti sedere su una panca di fronte al loro tavolo, i padri comboniani su altre panche a lato.
E finalmente riusciamo a sapere di cosa siamo accusati.
Uno dei lavoranti sudanesi del nostro piccolo centro sanitario è stato trasferito in un altro villaggio come punizione per aver mancato di rispetto a qualcuno dei potenti locali, e io, impulsiva come sempre, ho osato esprimere pubblicamente un’opinione contraria.
Sono alla mia prima esperienza di cooperante, non ho ancora imparato la virtù del silenzio: regola numero uno, se non sei a casa tua non commentare mai le decisioni di chi comanda, soprattutto in zone di guerra, dove a comandare sono i militari, che non amano affatto essere contraddetti.
Se non voglio essere dichiarata “persona indesiderata” ed essere espulsa dal Sudan, compromettendo tutto il lavoro del nostro progetto, devo fare velocemente retromarcia.
Prendo in fretta la parola, prima che i nervi di Ralph saltino compromettendo ulteriormente la situazione, e faccio un elaborato panegirico a mia discolpa.
Mi secca dovermi scusare per qualcosa su cui so di avere ragione, ma il nostro lavoro viene prima del mio orgoglio.
Comunque i capi non sono ancora soddisfatti e sembrano intenzionati a farmi pagare a caro prezzo il mio ardire.
Decisivo si rivela l’intervento dei padri comboniani, che operano una mediazione paziente e produttiva.
Finalmente questa specie di processo si conclude, possiamo tornare al nostro lavoro con reciproche rassicurazioni che l’incidente può considerarsi concluso.
Come lezione è stata piuttosto pesante, ma mi è servita.
Non ho mai più dimenticato che quando sono in un paese straniero sono un ospite, magari benvoluto, magari utile, ma pur sempre un ospite, che la mia cultura è quasi sempre diversa da quella del paese in cui mi trovo ma non è affatto detto che sia migliore e non spetta a me giudicare, che le mie opinioni sono solo le mie opinioni e se non mi vengono richieste è meglio che valuti attentamente l’utilità di esprimerle, consapevole in tal caso che ci saranno delle conseguenze da affrontare.