Sono passati parecchi anni da allora, da quando mi ero persa. Non avrei mai creduto di farcela. Per me quell’ambiente è sempre stato normale. Mi ritrovo qui ora, dove ha avuto inizio la mia fine. Pensavo che questa casa, se così si può definire uno stanzone con due materassi e un secchio per bagno, morisse prima di me, e invece siamo entrambi ancora qui, barcollanti, ma solide in un certo senso. Ci sono ancora delle vecchie polaroid, non mi stupisce il fatto che mia madre se le sia dimenticate qui. Si era scordata pure di me, come io di lei. Possibile che quella bimba con il caschetto fossi io? Oh guarda, qui ero con uno dei miei padri, uno dei tanti e mai quello vero, o almeno era quello che diceva mia madre: a lei andava bene così e io ero troppo piccola per capire. Dicono che ripercorrere il passato mi aiuterà a costruire un nuovo e raggiante futuro. Qui di raggiante non c’è nemmeno la luce del sole, c’è solo la polvere. Guardai fuori dalla finestra, l’unica, con quel vetro rotto ormai da trent’anni e iniziai a piangere. Là dietro c’erano le scale che portavano direttamente alla metropolitana. Erano il mio ritrovo preferito. Avevo tanti amici lì che mi insegnavano a “godermi la vita” come dicevano loro. Un ragazzo in particolare ricordo, molto più grande di me. Si chiamava Tommaso, o Matteo non so, forse non lo sapeva neanche lui qual era il suo nome. Lo chiamavano tutti signor E perchè vendeva “felicità”, come mi aveva detto inizialmente, ma sono cresciuta abbastanza per capire che quella era droga e basta. Avevo 8 anni quando lo conobbi. Ricordo che mi cedeva sempre le sue sigarette. Mia madre non voleva che io prendessi le sue. Il signor E era sempre stanco, al punto di addormentarsi in piedi per poi accasciarsi a terra vicino a me e io gli tenevo compagnia, stando attenta che nessuno rubasse le sue cose. Ogni tanto i miei occhi andavano verso la città. Era troppo bella per noi: colorata e luminosa. Nessuno degli abitanti veniva mai qui, forse non eravamo abbastanza simpatici, o puliti. Ero incuriosita da quel luogo e avrei voluto correre via, attirata dalla luce come una gazza ladra, dove i bambini giocavano e nessuno si picchiava. Con il passare del tempo mi convinsi che in realtà quelli sbagliati erano loro: noi eravamo irrilevanti, preferivano vederci morire, perché da morti non eravamo più un problema. Tutta la mia infanzia fumò via, come una sigaretta, senza istruzione, senza famiglia, senza dignità. Non contavo nulla, anche per il signor E ero solo una presenza inutile. Un giorno decisi di lasciarlo da solo: ero stufa di essere il suo zerbino. Non mi lasciava mai prendere tutte quelle “cose” che lo rendevano felice. Me ne andai, e non lo vidi mai più, o per lo meno non da vivo. Una sera seppi da mia madre che lo avevano accoltellato. Il giorno dopo andai da lui. Il suo corpo era lì, con i suoi occhi grandi e azzurri spalancati, pallidissimo. Dov’era finita tutta la sua felicità? “Ora starai meglio, amico” gli dissi “Tienimi da parte qualche paglia quando arriverò da te”. Per la prima volta sentii il mondo crollarmi addosso. Avevo perso l’unica certezza che avevo. Me na andai, stavolta lontano, senza un soldo, senza niente. Fu allora che mi persi, quando trovai la mia migliore amica: l’eroina. Ero diventata una signora E ora. Dopo anni bruciati per sempre arrivò la svolta. È stata proprio la città che ripudiavo a salvarmi, o almeno è quello che vogliono farmi credere. Ho sempre accettato le cose come stavano. Io ero padrona di me stessa là e nessuno mi dava ordini. Ora invece sto da schifo, “almeno sei viva” dicono. Che senso ha essere vivi se non si ha nulla per cui vivere? Le persone fanno finta di volermi bene, mi compatiscono , anche se non si guarisce una tossica con la compassione. Amore? La droga mi ha dato amore più di quanto me ne abbia dato mia madre, più di quanto io ne abbia dato a me stessa. Non è facile dimenticare un’amica, anche se questa ti ha fatto solo del male. “Credo che la mia visita possa concludersi qua”, e così esco di casa, lasciandomela alle spalle. Mi accendo una sigaretta e mi dirigo verso la metropolitana dove vedo la raccapricciante scena di un ragazzino che tenta di legarsi il braccio con un laccio emostatico. Il cucchiaio bruciato e arrugginito è vicino a lui. “Signor E mi hai tenuto le sigarette come ti avevo chiesto?” penso. Me ne accendo un’altra e mi lascio scivolare giù. Il terreno mi inghiotte e mi avvolge con dolcezza finché tutto si fa scuro e sento il mio corpo assente, come se non fossi più in grado di controllarlo. Tutto è rallentato come i battiti forti del mio cuore e la testa inizia a girare. Non sento niente se non le note di una canzone familiare: è Atomic, di Blondie. La sua voce mi accarezza cullandomi fino a togliermi il respiro. Riapro gli occhi. Sono a casa. È successo di nuovo. L’astinenza fa ancora questi scherzi, facendomi vivere alcuni momenti come se finissi in un coma lucido. A volte vorrei fosse un coma e basta.


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Giuliana Greco ha votato il racconto
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Dalcapa ha votato il racconto
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Racconto intenso. Qualche perplessità sull'uso dei tempi verbali un mischiati e forse confusi. Comunque racconto bello e forte.Segnala il commento
Franco 58 ha votato il racconto
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non so perché ma Tommaso viene spesso chiamato Matteo :) Welsh saprebbe spiegarcelo? :)Segnala il commento