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Narrativa

Rise Above

Di Howl
Pubblicato il 25/05/2022

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Se pensi che ti amo, pensi male. Ho parlato di te al dottore solo perché non avevo niente da dire. Almeno oggi, che devo scrivere come tutti i giorni, lasciando perdere che è sabato sera e dovrei almeno fare finta di avere qualcuno con cui parlare, voglio ricordarti perché lo faccio davvero. Il dottore ha detto che andava bene scrivere qualcosa su questo, scrivere come facevo quando ero bambino, perché ci deve essere un’impronta da qualche parte che mi faccia vedere dove sto andando. Prima ho scritto, poi ho iniziato a leggere; ho sempre ragionato all’inverso, la stessa cosa con la chitarra. Per tre anni non l’ho più fatto, ho ripreso a Settembre. Mi ha detto di scrivere pensando a qualcuno e le prime volte che lo facevo mi sentivo spiato; era una sensazione brutta, mi sembrava come se qualcuno mi si appollaiasse sulla spalla, mi parlasse all’orecchio, mi dicesse che stavo sbagliando tutto, e così la mia voce era dedicata a quello strano amico. Scrivevo sotto dettatura o almeno avevo quest’idea. Ho conservato solo l’episodio della cassetta, perché è sicuro che quel giorno si è spaccato qualcosa nella mia testa.

Adesso ho due giorni liberi dal mondo, mi sono chiuso in camera, scendo di sotto solo per mangiare e la mia vecchia chiede come stai? Non abbiamo parlato poi molto della mia vacanza coi cerebrolesi, a lei ho detto che era tutto a posto. Adesso, fuori dalla finestra della stanza le luci della discoteca sul mare si alzano in cielo, danzano nella notte e chiamano i ragazzi come me. Cioè, non proprio come me, ma… ci siamo capiti dai. Sto scrivendo di questi primi sei mesi, e mi è già capitato di farlo come se fossi tu, e solo tu, il mio pubblico. E non ti ho ancora mai rivolto parola.

I muri della mia stanza sono stati riverniciati, i poster scollati, le cassette nascoste. Non c’è più alcun segno della mia pazzia, anche l’odore è diverso, come se avessi l’avessi tutta sudata via. La mia stanza è immacolata. È bianca. Non ha più alcuna cicatrice. Il primo libro che ho letto dopo che sono tornato è stato "Il Piccolo Principe", la copia che la mia vecchia mi leggeva quando ero bambino. Cercavo solo le cose innocue, che mi trasmettessero serenità, mi tenessero a bada. Ogni deviazione per me sarebbe stato come deragliare. Avevo questa idea. Così, il libro successivo è stato "Il Gabbiano Jonathan Livingston" di Richard Bach.

Prima d’impazzire stavo leggendo "Costretti a Sanguinare", un libro di Marco Philopat sulla scena punk italiana degli anni ottanta. Ero proprio in fissa. Il libro, adesso, non so’ che fine ha fatto.

Questa è la stanza di un’altra persona.

Cercando da qualche parte forse troverei dei segnali di me, che un tempo qui c’ho abitato. Ora solo la luce che si schiaccia su queste righe, e un diario che riempio da ormai quattro anni, perché ti fa bene. Ma quello che ho non è una cosa che si può curare, la si può solo tenere in gabbia con le medicine, ma che schifo è?

A Pasqua ho rivisto Ezio e Giuseppe, non si è parlato di musica, non si è parlato di niente, cioè, alla fine qualcosa si è detto, ma loro fanno parte di quel mondo al di là delle sbarre.

Se ti ho vista, e se sei vera, almeno queste parole hanno un senso ed è anche più bello sperare che tu le senta.

Ma non pensare che ti amo, non è per questo che ti scrivo. È sabato, voglio qualcuno che mi faccia compagnia, che stia con me dentro alla mia testa, che venga a cercarmi, e parli con me, come me.

E allora ci sei, siamo seduti sul parapetto della finestra, facciamo penzolare le gambe nella notte, tra noi e lo schianto c’è un intero piano di cose successe tanti anni prima e che non si possono spostare di un centimetro. Guardiamo la luna, pensiamo al tempo che scorre e tu mi stringi la mano, dici che a cadere da qui non si muore, al massimo si rimane paralizzati.

T’immagini.

Hai il vestito di quel Settembre, la maglietta nera con su scritto GABBA GABBA HEY!

È là che finisce il mondo, se ti sforzi, là in fondo.

Io, le dico, se mi sforzo, riesco solo a sentire la musica di merda della discoteca.

È là che sono tutti.

E tu dove sei?

Io sono qui.

Così è com’è parlare con te, senza che tu ci sia.

Non mi sono buttato, perché a pensarci bene poi non sarebbe cambiato niente, solo la condizione della mia spina dorsale.

Eppure non riesco a pensare a un modo diverso per farlo. Credo che ci si debba impegnare a fondo, ed è comunque troppo difficile morire.

Da piccolo c’era più spazio tra me e il pavimento, credevo che così l’avrei raggiunto… di questo non parlo nemmeno con il dottore, il suo ricordo l’ho chiuso così forte dentro di me che non fa più male. Avevo sempre questo metodo con il dolore: deglutivo. Lui tornava e io lo mandavo giù, gli dicevo di stare lì. Ero stupido, funzionava.

Ci fosse almeno questo oggi, saprei di essere vivo, ma la verità è che l’unica prova che io sia realmente qui, sono queste lettere in fila una con l’altra.

Come si torna al mondo se quello che ti fa stare bene ti può uccidere?


È davvero questo che pensi?


Il primo giorno di quest’estate, prendo la bicicletta ed esco. Ho le cuffie e il vecchio walkman di quand’ero bambino. Non mi piacciono i cd.

Vado, con la musica a palla, fino a casa di Ezio e Giuseppe. Ho appena scritto un pezzo nuovo e non vedo l’ora di farglielo sentire.

Il dottore mi ha chiesto di raccontargli solo cose vere, solo cose che possono accadere.

Così gli dico quello che è successo, che l’unico strumento che prendo in mano da mesi è l’armonica, perché qualcosa di sensato viene fuori comunque, e non importa se sono stonato e senza alcuna grazia, importa solo di fare casino.

L’armonica l’ho comprata a febbraio perché volevo fare qualcosa anch’io, ma non è che serva a molto. Ho capito che tutto quello che sta dentro di me, le parole che mi girano in testa quando mi siedo sulla scrivania, sono l’unico strumento che posso suonare.

Compresa la mia voce s’intende, ma a urlare sono capaci tutti.

Perché credi che siano capaci tutti? Mi chiede il dottore.

Ma, comunque, non importa.

Le cose vere sono altre, e si muovono appena sotto la superficie, così più che un iceberg sono la pinna di uno squalo come in quel film di Spielberg.

Fanno paura, ma se stai a riva, mica ti prendono.

E se ti prendessero?

Non voglio, voglio solo guardarle e dire: qui sono al sicuro, faccio bene il bagno lo stesso

E i tuoi amici invece, loro nuotano con gli squali?

Non credo, solo io ho gli squali dentro. Ma se sto attento, se mi muovo piano, se non gli do modo di vedere il sangue, li tengo a bada.

Raccontami ancora di quella ragazza.

Parla di te.

Non l’ho più vista, sono due mesi.

Non gliel’ho detto stai tranquilla, non lo dico a nessuno.

Allora, come si chiama il vostro gruppo?

Gli dico che ancora non abbiamo un nome, sono appena due mesi che suoniamo assieme.

Il dottore scrive sul suo blocnotes.

Come vorresti che vi chiamaste?

Mah, non so… A me piace I bassifondi. Volevo qualcosa nella nostra lingua, qualcosa che parlasse di questi posti, no?

Stai parlando della superficie senza squali. Dice, e fa un sorrisino.


Sa sa, okay okay.

Ezio e Giuseppe creano un bel muro sonoro, io urlo il pezzo che ho scritto ieri sera. Improvvisiamo, come abbiamo sempre fatto.

Si chiama "Benazzi", parla di un tizio che ho conosciuto l’estate scorsa al campo per cerebrolesi. La terza volta che ci sono stato.

La storia in sé fa un po’ ridere, ma ha un risvolto macabro e truculento perché poi lui torna a casa e ammazza i genitori. Questo non è mai successo, oddio, almeno non credo, ma mi sembrava un finale adatto.

Questo tizio, ha la mia stessa età, ma ha la faccia di un vecchio.

Molti dei ragazzi che venivano al campo, avevano avuto problemi con la droga. Molti erano in cura per disturbi della psiche, non curabili è ovvio. Altri, erano solamente tristi.

Io ero lì per la mia vecchia.

E il mio dottore.

Non ho mai scritto di loro, anche se ho sempre scritto di loro. Il mio dottore, è un amico di famiglia. Lo zio della cugina di mio papà. Ovvio che non mi è mai piaciuto parlargli dei cazzi miei, soprattutto in questi ultimi tempi. Me lo porto dietro da ormai sei anni, e non mi ha mai sistemato un cazzo. Lo so, fa da referente alla mia vecchia, tutto quello che passa dalla mia bocca poi arriva ai suoi orecchi.

Io cerco di dirgli il meno possibile, ma l’unica condizione che mi permette di suonare con Ezio e Giuseppe oggi, e che io veda questo stronzo almeno una volta a settimana.

Così, via di "Benazzi", e facciamoci del male, è così che fa quella specie di ritornello: parla dei suoi genitori. Le cose vere fanno sempre più paura, urlo.

Devo sistemare ancora qualcosa, la prima versione non mi piace mai del tutto. Devo capire se ci sta meglio una parola o un’altra, anche a seconda di cosa tira fuori Ezio.

Alleggerisci, non dire troppo.

Deve stare tutto schiacciato in tre minuti.

All’inizio scrivevo troppo, li bombardavo di parole.

Ma è questo il testo? Chiedeva Ezio. Cioè: due pagine?

Non cambiava poi molto che fosse tutto messo in versi. Ezio mi chiedeva di provare a leggerla.

Vediamo un po’. Diceva.

Erano storie di gente disfatta, malandata come me. Non c’era speranza né redenzione, solo male. E il male era sempre risolutivo.

Ezio si agganciava a un concetto, non so cosa ci vedesse lui, ma trovava sempre un canovaccio, qualcosa da cui costruire. Diceva, ecco, questo si elimina, questo deve essere detto meglio. Questo va bene, si può ripetere.

Con il tempo ho fatto miei i suoi consigli, ho imparato a conoscerlo, a stare dentro i suoi accordi.

Semplifichiamo, okay? Diceva. Dritti al punto.

Non so se Ezio si ricorda del bambino che è stato, ma oggi, sei anni dopo, è un’altra persona.

Com’è stato per me, la musica, l’ha cambiato.

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Aaeru ha votato il racconto

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Mauro Pianesi ha votato il racconto

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Giuliano ha votato il racconto

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Mi è piaciuto molto, soprattutto per i parallelismi con la musica e il cinema. Poi, sono un vecchio fan dei Ramones...Segnala il commento

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Anonimo ha votato il racconto

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Adriana Giotti ha votato il racconto

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Narrativa. Questa è vera narrativa.Segnala il commento

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Giampiero Pancini ha votato il racconto

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rheya ha votato il racconto

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Silvia Lenzini ha votato il racconto

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Dritti al punto. Ottimo.Segnala il commento

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Ezio Falcomer ha votato il racconto

Scrittore

Ottimo.Segnala il commento

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Franco 58 ha votato il racconto

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Urbano Briganti ha votato il racconto

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Giacomo Pics ha votato il racconto

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Molto ben scritto, ti entra dentro e fa male. Complimenti.Segnala il commento

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Anonimo ha votato il racconto

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Davide Marchese ha votato il racconto

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blu ha votato il racconto

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Paola Zaldera ha votato il racconto

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