Era sempre più avvinto dalla noia e dal senso di disappartenenza. Amava chi lo aveva scortato nella metamorfosi da bambino ad adulto, ed era grato a chi gli aveva insegnato quanto gli uomini possano essere, al tempo stesso, indulgenti e crudeli. Non rimpiangeva il passato né rinnegava i fallimenti, giacchè non ignorava che i semi necessitano anche di letame per fruttificare. Ma era certo che fosse l’altrove l’impulso che guida genio e talenti. Dunque aveva deciso di partire, di seguire il richiamo dei pensatori itineranti in cerca di mete e risposte. Voleva comprendere gli esseri umani e, per farlo, doveva osservarli quando non sanno di esserlo.
Aveva viaggiato molto e sviluppato un buon senso d’orientamento. Indagava i propri simili e, con stupore, notava che anche gli individui più avveduti avevano una relazione anomala con lo spazio e il tempo. Anzi, più vantavano il loro grado di “civilizzazione” e più pativano la smania di colonizzare l’infinito e conquistare l’eternità. Ciò lo induceva a una dolorosa riflessione: In Occidente i bambini sognano di diventare astronauti, ma da adulti camminano come se temessero di pestare mine anti-uomo o di lasciare tracce ai cacciatori di taglie. E così finiscono per irrompere nello spazio altrui come invasori, piuttosto che visitatori di passaggio grati dell’ospitalità ricevuta. Il progresso non ci libera dalle paure né dal vizio di agire arbitrariamente sul Creato. Se imparassimo a misurare lo spazio in mete e conquiste, e il tempo in scelte e azioni, saremmo costretti ad agire per il bene comune. Questo pensava, come il più comune dei pensatori.
Dal canto suo, era sempre disposto ad accogliere chiunque, e non per un aristotelico o rousseauiano istinto di socialità, o per il farisaico rispetto del senso civico, né per tema della solitudine, ma per la curiosità e il rispetto che gli esseri umani suscitavano in lui.
Era affascinato dalla complessità delle relazioni umane e di come l’Humana ratio abbia sempre governato - in modo inintelligibile - sulle contraddizioni umane.
Era un eccellente oratore, dunque dava alle parole un’importanza inferiore solo alle azioni, e preferiva ascoltare e osservare. Biasimava l’incongruenza e la grossolanità dei parolai, l’uso di espressioni ridondanti nella forma e vacue di contenuto, la critica e le polemiche pretestuose.
Dell’insignificanza e del senso relativo del linguaggio era certo. E non perché avesse letto migliaia di libri e il Trattato di Wittgenstein, ma perché sapeva che gli esseri umani sono incostanti e incoerenti.
Erano questi in momenti in cui più si sentiva fuori luogo.
Credeva nell’unicità e nell’irripetibilità di ogni essere vivente. Tuttavia la prudenza lo induceva ad accogliere con le dovute riserve i concetti troppo astratti, come: l’altruità.
Nulla da eccepire sul dovere di condividere con i propri simili lo spazio e concedere loro il tempo che meritano. Se avesse ordinato alle sue gambe di condurlo lontano dalla sofferenza dei suoi simili, non gli avrebbero obbedito. Almeno sino a quando non avesse tentato di alleviare il dolore altrui. Tuttavia, la solitudine e il silenzio erano per lui le migliori alleate della coscienza e dell’anima, la condizione necessaria per dare la stura al pensiero.
“Nosce te ipsum” era il motto che ripeteva - come uno scongiuro - quando avvertiva la tentazione di ergersi a giudice del prossimo, o quando temeva che a forza di amare e “servire” gli altri avrebbe finito per non conoscere più sé stesso. Non concepiva l’amore come il sentimento d’abbandono, di resa alla volontà altrui, né di presa dello spazio e del tempo altrui, dei sogni e dei desideri, dei bisogni e dei pensieri. Per lui l’amore era un atto di donazione, un lascito da consumare prima che ci consumi.
Non c’era personaggio storico che lo affascinasse più di Gesù: l’Uomo dell’azione e dei giovannei “segni”, il trasgressore, il rivoluzionario, il contrappeso a dèi iracondi e guerrieri.
Anche la filosofia lo affascinava, come un audace tentativo di arginare l’attitudine umana a contraddirsi. Evitava con cura di dissertare sulla coerenza dei filosofi, ma quando era messo alle strette, rammentava come il grande Seneca - il filosofo della serenità e delle “consolazioni” - avesse usato la stessa mano per scrivere le Lettere a Lucilio e l’arringa in difesa del matricida Nerone; di come Kant - il filosofo della morale -, avesse covato per anni la vendetta contro il collega Buck, e di come lo avesse denunciato ai prussiani per ottenere la cattedra di Logica e Metafisica a Königsberg; o di quanto fosse abile Schopenhauer a dissertare sui problemi dell’esistenza in lussuosi ristoranti, in compagnia di generose amanti, tra sfarzi e fiumi di champagne.
Amava Socrate e Nietzsche: l’alfa e l’omega del pensiero occidentale, e sosteneva che erano “L’ovulo della ragione inseminato dall’ambizione”. Era grato a Platone per aver custodito gli insegnamenti del maestro. Tuttavia, in cuor suo pensava che in fondo la filosofia è un’indagine senza movente e vittima. Appaiare le tessere delle domande alle risposte non è un privilegio dei filosofi, è una prerogativa di tutti gli esseri pensanti. Non esiste un ateneo che insegni a pensare né una patente che autorizzi la guida verso le risposte. Questo credeva come il più umano dei credenti.
Amava l’arte, che faceva degli umani i più abili emulatori del Creatore. E amava la letteratura: la più schietta rappresentazione di tutto ciò che gli esseri umani sono. Ma era convinto che il pensiero è una meretrice: domina quando si è giovani e forti, e abbandona quando le membra diventano fragili e inabili a condurre altrove. La parola ti lascia solo si ricordi ma, se non hai buona memoria, ti consuma invano e senza alcun piacere. Questo diceva come il più umile degli uomini.
Non era più giovane e, sempre più spesso, si sorprendeva a chiedersi se fosse passato vicino al suo “altrove” senza accorgersi che era quella la meta. Una volta - quando era ancora un sognatore - credeva di averlo trovato. Era un bel posto. C’erano barche rovesciate sulla spiaggia e un veliero incastonato tra cielo e mare. Non ricordava dove fosse, ma solo che si era sentito se stesso.