Il mattino non scorre mai fluido, anche la sera per vero, ma è un altro genere di non-fluidità.
Sto per scendere l’ultimo gradino e mi viene in mente che oggi c’è la “raccolta carta”.
Risali, ridiscendi.
Però adesso ho lasciato le chiavi sul mobile dell’entrata.
Risali, ridiscendi .
Sono già annebbiata ormai, tant’è che quando vedo del fumo che sale dal muretto fuori casa penso di non vederci bene.
Un fumo pressoché dritto, come quello che delle sigarette.
E’ una sigaretta! Che fuma da sola.
Mi viene anche da ridere.
E pure di fumarla.
Sento una voce femminile dietro di me “scusa scusa, è la mia, scusami, la tolgo subito”.
Nonostante l’aspetto malmesso e trascurato ha qualcosa di acerbo che la fa apparire “ragazza”, anche se adulta, forse vicina alla mia età.
É mal vestita, come avesse scelto a caso gli indumenti per uscire, una specie di maglione a righe e un jeans chiaro, ha la lampo aperta, una scarpa da ginnastica slacciata.
Cammina in maniera affaticata, è anche curva. Sembra impaurita.
Deve avere avuto dei bei capelli, sono ancora lucidi, anche se sono scomposti, trasandati. Li ha raccolti alla bell’e meglio con un laccetto viola.
Lo sguardo è dolce... le dico che non ci sono problemi, la sigaretta può stare lì.
Mi spiega che doveva entrare nell’ambulatorio di fronte, per ritirare alcune ricette mediche e non voleva spegnerla.
Sorride imbarazzata, le manca un dente.
Sabrina!
Sabrina?
Non mi ha riconosciuta, ma lei è lei. La mia compagna di banco per gran parte dell’anno di terza media
Così bella ... guardavano tutti lei.
Bella e vivace, stava sempre insieme ai maschi.
Scanzonata , ribelle, maliziosa.
La invidiavo.
Mi utilizzava come amica confidente. Un utilizzo innocente. Mica che ne fosse consapevole, aveva altro da pensare.
Ero l’amica giusta a cui raccontare le sue avventure. Di me non chiedeva mai nulla. Parlava solo lei e le bastava.
Quell’anno mi avrà chiesto almeno cento volte “ma tu sai baciare? Secondo me no. Ti spiego io come si fa” e insisteva con la sua lezione sul bacio.
Diceva che dovevo allenarmi, che a casa dovevo baciare per almeno due-tre minuti un cuscino , tenendo la bocca ben aperta e poi muovere la lingua.
E io lo facevo, con risultati grotteschi ed esilaranti insieme.
Mi raccontava che il Dario, ogni tanto, le metteva dentro un dito. Diceva proprio così.
Mi ci è voluto del tempo per capire bene questa storia del “dito”, figurarsi che le prime volte non capivo nemmeno bene dove lo mettesse.
Il suo pensiero fisso era di non rimanere mai senza un moroso.
“Se mi lascia il Dario so già che il Nicola si vuole mettere con me. E poi il Marco, pure lui, mi ha chiesto di vederci una sera, e sono già tre, perciò sto tranquilla; da sola non rimango”.
Era il suo modo di stare nel mondo.
“Sei Sabrina vero?“
“mi chiamo Sabrina, sí”
“ti ricordi di me? Terza B, primo banco, accanto alla prima finestra”
gli occhi si fanno grandi, come se cercassero il più possibile di far spazio ai ricordi.
“Ma sí, adesso ricordo, abiti qui ? Non ti avevo riconosciuta ” lo dice senza troppa enfasi, nè sorpresa, parla lentamente, come se facesse fatica.
Tergiversa quando le chiedo di sé. Mi dice solo che abita poco lontano.
E’ commovente, non so nemmeno bene perché.
C’è qualcosa di fragile in lei, come se avesse provato un forte spavento.
Lo sguardo è sfuggente.
La vedo impallidire. Le propongo di sederci un po’ sulla panchina che sta fuori dall’ambulatorio.
Stiamo in silenzio.
Tanto per dir qualcosa le rammento la storia del cuscino da baciare.
Ride.
“Ma davvero ti dicevo questo ??”
“certo, mi hai rovinato la carriera di baciatrice, secondo me”.
Ride.
Le guance tornano rosa, gli occhi sono stanchi, ma calmi.
“Magari ti suono il campanello se passo di qui, ogni tanto, così ci salutiamo.Anche solo dalla finestra,se vuoi”.
Mi sfiora la mano e chiede scusa.
“ogni tanto mi capita di non stare bene “.
Sapessi Sabrina