Silvana prende un lungo respiro e bussa con due colpi leggeri alla porta dell’ufficio del capo. Niente, nessuna risposta. Scrolla il braccio per liberare il polso dall’orlo del maglione bianco, e controlla l’ora. Arriccia il nasone e mi fissa.
«Sono quasi le tre.»
Le sorrido appena. «Forse non ha sentito, prova a bussare più forte.»
Lascia partire uno dei suoi soliti sibili. «Sono il tuo capo, non azzardarti a dirmi quel che devo fare.»
Incasso la testa tra le spalle e alzo le mai in segno di scusa.
Appiccica l’orecchio alla porta.
«Dottore, è in stanza?» sussurra.
Santo cielo! Ma se pure ci fosse, come fa a sentirti se parli così piano?
Torna composta, con la mano si stira la gonna a quadratoni beige. Controlla di nuovo l’ora.
«Ci ha convocato per le tre, e sono le due e cinquantanove.» Col mignolo si gratta l’escrescenza a palla tra il nasone e il labbro. «Non voglio che pensi che siamo arrivati tardi.»
Annuisco. «Giusto! Bussa più forte, e se non risponde apri comunque.»
«Non dirmi quello che devo fare!» Mi punta l’indice sul viso, gli occhi minuscoli si allargano dietro le lenti spesse. «Tu sei qui con un contratto provvisorio, ricordalo.» Scuote la testa, sospirando come una maestrina esasperata da un alunno tonto. «E sarò io a giudicarti, semmai te lo fossi scordato.»
E come vuoi che lo dimentichi, se me lo ricordi ogni giorno?
Spinge in su quei fondi di bottiglia che ha per occhiali e prende un altro respiro. Bussa con due colpi appena più decisi.
«Dottor Panzarotti, è in stanza?»
Niente, ancora nessuna risposta.
Mi lancia un’occhiata di traverso e afferra la maniglia. La gira come se stesse per aprire la porta sulla tana di un orco.
La porta cigola, la puzza di sigarette ci travolge. Ce n’è una ancora accesa, adagiata su un posacenere pieno di cicche sulla scrivania, da cui parte un filo di fumo verso l’alto. Agito la mano nell’inutile tentativo di pulire l’aria, gli occhi mi pizzicano. Silvana tossisce a bocca chiusa.
Mi dirigo verso la finestra e la spalanco, una folata di vento gelido mi riporta al mondo.
«Sei impazzito? Chiudila subito!»
«Ma se stai soffocando pure tu…»
Il suo sibilo viaggia a decibel crescenti. «Se la puzza la sopportiamo noi, che siamo dipendenti, la sopporti pure tu, che sei solo in prova.» Si piazza le mani sui fianchi, grugnisce. «Chiudi la finestra, ho detto.»
L’accosto, ma lascio uno spiraglio, tanto, per quanto è cecata non se ne accorge di sicuro.
Gironzolo per l’ufficio, incrocio le dita e stiro le braccia verso l’alto.
Silvana scosta una delle due sedia attaccate alla scrivania. «Siediti!»
«È tutto il giorno che sto seduto a leggere i capolavori pubblicati su Typee.» Ruoto il collo, le ossa scricchiolano. «Fammi sgranchire un po’.»
Batte la mano sulla spalliera della sedia. “Siediti, ho detto!»
Obbedisco, meglio non farla incazzare ulteriormente.
Si siede accanto a me, schiaccia la sigaretta sul posacenere per spegnerla, a malapena soffoca una raffica di colpi tosse.
«Aspettiamo qui. Panzarotti arriverà tra poco.»
Con un movimento della testa le indico la libreria perimetrale alle spalle della scrivania, stracolma di volumi di tutti i colori.
«Secondo te il capo li ha letti tutti quei libri?»
«Ma che dici?! Quelli sono libri d’arredamento!» Si sfila i fondi di bottiglia e si stropiccia il viso. «E poi siamo in Italia: tutti scrivono e nessuno legge.»
Magari! Tutti scrivono, nessuno legge, ma tutti s’atteggiano a persone di cultura, a colpi di paroloni e citazioni a cazzo.
Allontano il posacenere. «Ma tu sai perché Panzarotti ci ha convocato?»
«Temo di sì.» Riporta il posacenere nella posizione originaria, ci tamburella vicino con un dito alla volta e lo sguardo perso sulle cicche. «Ho paura che sia insoddisfatto di come stiamo gestendo la redazione di Typee.»
Stiamo gestendo? Stiamo? Ma sei seria? Cos’è, ora ti sei scordata che io sono qui da nemmeno due mesi?
Dal corridoio rimbombano dei passi: questo dev’essere lui, con tutta la sua delicatezza da farfalla…