In me c’è qualcosa che non va. Devono essere i grissini alle olive e la salsiccia cruda che ho mangiato, qualche virus anarchico vegano, l’idea balzana del giorno, il ricordo delle donne prese, tradite e che mi hanno tradito, la sonnolenza epatica che mi pervade il primo pomeriggio, questo senso di inutilità che mi penetra qualsiasi cosa faccia. Questa immobilità di rovine elleniche col rumore degli insetti e della merda delle capre, una sorta di desolata solitudine e silenzio di battaglie achee. I cadaveri sono stati appena rimossi. La peste ha colpito e colpito. L’ira di Jahwe sulle rovine di Moab, gli innocenti sgozzati. Kosmos, ordine e bellezza. Ma Jahwe crea l’ordine e poi lo distrugge. Śiva crea l’ordine e poi lo distrugge. L’uomo è un distruttore. L’uomo è un virus. Satura e distrugge il pianeta che abita.
Mia madre ha 83 anni e mi spiega per filo e per segno cosa devo fare esattamente in qualsiasi ramo dello scibile umano. Mia madre crea l’ordine e io lo distruggo. Non so ancora come riempire un sacchetto delle immondizie o fare una valigia, esito di fronte all’incognita di quale piede avanzare per scendere bene le scale. Per Milan Kundera, il kitsch è la “negazione metafisica della merda”. Ma la merda ha bisogno di essere nominata, sennò si rischierebbe la pazzia. Il racconto della croce è la negazione del kitsch. La Bibbia è la negazione del kitsch. Il male stesso è l’antikitsch. Anzi, il male è così subdolo che sta dietro anche al kitsch, incrinandolo insensibilmente, insufflando una leggerissima nausea.
Desidero un po’ di pace, soprattutto metafisica. La metafisica è l’unica cosa seria e concreta che mi resti da affrontare. Dio è la persona più relativamente equilibrata che io frequenti, pur con tutta la cautela del caso. Nello stesso tempo, Dio si fa trovare anche nel colmo della merda, nell’oscurità più totale. Dio è anche la sua follia. Il Figlio dopo la morte scende agli inferi, nel luogo della disperazione più assoluta, e il Padre lo tira fuori. La risurrezione è l’avvenuta frequentazione della merda, del caos e della disperazione, il riconoscimento del male. Ma la risurrezione non può essere spiegata bene in questo tempo, sennò diventerebbe kitsch e quindi male. La risurrezione è il fuori dal tempo. Come il nirvana. Il nirvana non è piacere, è fine dell’opposizione di dolore e piacere, è aldilà dell’opposizione, è oltre il tempo. È oltre tutte le possibilità e gli artifici retorici del linguaggio.
A 58 anni il senso del corpo è al culmine, intensità e inizio dello sfacelo. Sbadiglio. È una delle cose più intense che io faccia. Sbadiglio e starnuto. In una solitudine assoluta e patologica. In uno scenario di decomposizione che avvolge la pelle, gli organi e i metalli, qualsiasi cosa. Eppure c’è molto da stare allegri. La ungarettiana allegria di naufragi. Sono sulla barca dei folli che va alla deriva. Ho la totale libertà di parola, soldi e calore corporeo a sufficienza. Ho un rapporto morboso col pericolo e il suicidio. Le prime due volte giocando, a tre anni, da un terrazzo e da un buco della pattumiera, quando ancora esistevano. Poi tre tentativi, a 39, 42 e 44. Il suicidio è un traguardo importante della vita, un vero rito di iniziazione. La depressione maggiore è il sunto di tutte le catastrofi di cui è impregnata ogni vittoria. È il male lancinante, perché psichico, non fisico. È l’essere collegati a una macchina di tortura e il desiderio infinito di spegnerla e di spegnersi. La morte piuttosto che il vivere con questa tortura. Ci si affaccia al nulla con tutto il peso di un vissuto lancinante. I migliori orgasmi si vivono solo dopo vari tentativi di suicidio, quando hai le radici che si diramano in tutti gli abissi dell’oscurità della terra. La carnalità ha molto a che fare con la morte e i suoi territori. Si vive autenticamente, radicalmente piantati al suolo, con uno sguardo che spazia sulle pianure di una battaglia colossale, dove si scontrano esseri dalla foggia variegata, con uniformi improbabili. Un quadro disegnato da Moebius, di un grigio marrone cenere e ruggine. 58 anni è un rapporto continuo con ogni vertebra, con la rabbia di decenni, con sentimenti poco puliti. È un immaginario che si permette ogni cosa, laida e lasciva, crudele e violenta. Sbadiglio. Egoisticamente. Viviamo in un’epoca che cerca l’igiene, la leggerezza, la purezza, che respinge la chimica e la biologia; vuole appartenere ai microcircuiti, alla rarefazione, all’etereo dialogo con Alexa, al lucore soffuso, al design. Ma si va alla morte attraverso un corpo macerato, passando da un budello insanguinato. Si vorrebbe dimenticare il senso dell’esistenza e vivere in funzione della tecnologia e del marketing, in uno stato di perenne distrazione. La verità dell’esistenza continua ad essere di uno scandalo assoluto. La verità dell’esistenza è antieufemistica.