Scrissi,
in un tempo lontano,
convinto che fosse necessario.
Inondai di lettere
persone e luoghi,
remoti come stelle,
e urlai i miei sogni
ad un vuoto indifferente.
Solidi i silenzi
riportati a casa,
sguardi sperduti
di figli impolverati
di ritorno dalla guerra.
Ho scritto ancora,
in sere d’inverno,
convinto di esserne capace.
Ho dato la caccia alle parole,
mandato allo sbaraglio i pensieri,
sporcato di nero il bianco,
cercato negli angoli più bui,
scavato nel profondo.
Fra sospensioni di punti,
allineati e coperti,
ho seminato virgole, complici
di dolorose estrazioni di sogni
e di otturazioni di speranze.
Scrivo ancora,
di rado,
ma scrivo.
Incapace di riempire di senso
parentesi tonde di fianchi femminili,
evoco tuttavia immaginarie rotondità,
sinuose come ampie e sonore vocali
che esprimono ancora meraviglia.
E mi perdo sempre
in sguardi mai incrociati,
rifiutando facili rime
e comode assonanze,
morbide, ma di dubbio gusto.
Poi la penna si posa,
la luce si spegne
ed ecco, di nuovo, sempre,
un confortevole buio abitato
e un soffitto senza più segreti.
Scriverò ancora,
forse,
magari domani.
Pagine di parole,
per lo più cercate,
tante non trovate,
nell’accorata corsa
al senso più grande.
Scriverò di ricerca infinita,
di animate inquietudini,
di ormai noiosi cieli notturni
e della solita, eterna
conta delle stelle.
E poi di affollate solitudini,
di spazi vuoti da colmare,
di rumorosi, assordanti silenzi
a contrappunto della solita, vecchia
canzone d’amore per la vita.