Credo di averlo l'ho dimenticato, quel momento:
quando senti i tuoi confini incerti e frammentati, ma esuberanti, avvicinarsi, folli e vertiginosi, ai confini della persona con cui vorresti dividerli, e mescolarli; gli sguardi che si incontrano e si fondono, le mie dita che diventano le sue, il suo corpo che si fa mare per accogliere le mie onde, i nostri desideri che si scoprono ebbri di sconosciuti piaceri.
Ma poi ritornano, i miei confini, tornano sempre a ricordarmi dove sono rimasti, dove li ho lasciati molto tempo fa.
L' incapacità di opporci alla mancanza di amore e di condivisione, quando non ci schiaccia del tutto, genera una sorta di assuefazione, della quale iniziamo a nutrirci, in mancanza di altro.
Ci nutriamo del dolore provocato dall'assenza di un rapporto profondo e coinvolgente, nel quale cogliere e vivere la parte più importante e significativa della nostra vita.
E quel dolore può diventare un callo, fastidioso ma sopportabile, oppure una ferita aperta, che non si rimargina mai. Ma di solito si trasforma in una zona dolente, più sensibile e fragile di altre, in una sottile membrana fatta di ricordi e desideri, che prendono il posto di ciò che non riusciamo più a costruire.
Costruire una relazione, significa addentrarsi nel sottobosco delle proprie emozioni, averne cura e farlo crescere; significa conoscerne tutti i colori, tutte le forme, tutti i profumi e tutti i sapori, per poi condividerli, mescolarli con altri sottoboschi, e farne foresta. Scrivere, se non altro, mi aiuta a esserne consapevole, a mantenerne viva la memoria e la prossimità. Scrivendo mi dichiaro, mi espongo, manifesto le
mie emozioni, i miei pensieri e le mie idee, e posso prenderne atto, riconoscerli
e sapere che ci sono, sapere che io ci sono, che esisto, che posso vivere, anche in solitudine.
Credo che la follia si nutra di assenza, e l'assenza, a sua volta, di solitudine.
E scrivere, per me, significa evitare la follia.