Condividi et impera
Condividere, ecco il sesto verbo chiave di Kelly. Tutto ciò che potrà essere condiviso lo sarà: tempo, pensieri, emozioni, denaro, servizi, ecc… In particolare questo avverrà con le seguenti modalità:
1. Condivisione pura. Il pubblico in Rete ha uno straordinario desiderio di condividere. Il numero di fotografie personali pubblicate su Facebook, Flickr, Instagram e altri siti è astronomico: 1,8 miliardi al giorno. È facile scommettere che la stragrande maggioranza di queste fotografie digitali siano condivise in qualche modo. Poi ci sono gli aggiornamenti di stato, le posizioni geografiche, le mezze riflessioni pubblicate in Rete; al tutto vanno aggiunti i miliardi di video proposti quotidianamente da YouTube e i milioni di storie create dagli appassionati affidate ai siti di fanfiction. La lista delle organizzazioni di condivisione è quasi infinita: Yelp per le recensioni, Foursquare per le posizioni, Pinterest per gli album; condividere contenuti è diventato onnipresente. La condivisione è la forma più blanda del socialismo digitale, ma serve come base per tutti i livelli superiori dell’impegno comune; è l’ingrediente principale dell’intero mondo in Rete. Nel nostro piccolo, anche di Typee, una community che sulla condivisione libera di testi è fondata.
2. Cooperazione. Quando più individui lavorano insieme per raggiungere un unico obiettivo su larga scala, i risultati ottenuti emergono a livello di gruppo. Gli amatori non solo hanno condiviso miliardi di foto su Flickr e Tumblr, ma vi hanno anche aggiunto dei tag con categorie, etichette e parole chiave; altri membri della comunità selezioneranno queste immagini per creare album e collezioni. Il favore che licenze Creative Commons hanno incontrato implica in un certo senso che le immagini altrui sono le nostre: tutti possono usare una foto caricata in Rete, proprio come qualunque membro di una comune può usare la carriola della comunità. Non serve che scatti l’ennesima foto della Tour Eiffel, dal momento che la comunità può fornirmene una sicuramente migliore di quella che potrei fare io stesso. Significa che posso realizzare una presentazione, un report, un album, un sito Internet migliori perché non sto lavorando da solo. Anche qui: grazie ai commenti, che a volte assumono la forma di piccoli saggi come ha fatto di recente MargheMesi per esempio, ogni utente di Typee può cooperare al miglioramento dei testi degli altri.
3. Collaborazione. La collaborazione organizzata può produrre risultati che vanno oltre le conquiste delle cooperazioni ad hoc. È sufficiente pensare alle molte centinaia di progetti di software open source, come i sistemi operativi GNU/Linux, che sono alla base di molti server in Rete e di numerosi smartphone. In queste imprese, gli strumenti comunitari finemente messi a punto generano prodotti di alta qualità grazie al lavoro coordinato di migliaia o decine di migliaia di membri. Contrariamente alle categorie precedenti di cooperazione casuale, ampie collaborazioni e progetti complessi tendono ad assicurare ai partecipanti solo vantaggi indiretti, dal momento che ciascun membro del gruppo interagisce solo con una piccola parte del prodotto finito. Un appassionato può passare diversi mesi a scrivere il codice per una subroutine quando il programma raggiungerà la piena efficienza solo a distanza di molti anni. Per quanto riguarda Typee, la possibilità di utilizzare come editor un membro della community, che si mette a disposizione gratuitamente, è un eccellente esempio di collaborazione.
La condivisione della conoscenza
Le tre modalità del condividere digitale elencate da Kelly, e che di fatto connotano il nostro vivere Typee, pongono ancora una volta tantissime occasioni di riflessione per gli amanti dei libri, che, troppo spesso, aderiscono a quella nuova forma di luddismo (ergo, di “neoluddismo”) che si esplicita nell’attaccare Internet ed in particolare il Web 2.0, stigmatizzandolo come origine e fonte di ogni Male. Nonostante la presa di posizione dello stesso Papa Francesco, secondo cui Internet è “un dono di Dio”, questa idea fondamentale continua a declinarsi in una molteplicità variegata e anche fantasiosa di forme. Una di queste si fonda sulle argomentazioni di chi sostiene che i processi di condivisione in atto sul Web annullino la conoscenza.
È una vecchia storia. Pescando dai miei archivi digitali, ad esempio, scopro che La Repubblica, il 1 giugno 2013, ha pubblicato un articolo di Massimiliano Bucchi dal titolo La solitudine dell'esperto, in cui si sostiene che la bolla informativa creata da Internet "annulla la conoscenza". L’allarme arrivava da una ricerca curata da due professori dell’Università di Cardiff: il numero delle pubblicazioni è ormai fuori controllo. Non basta una vita per aggiornarsi: "la ricerca dell’Università di Cardiff stima che al ritmo tutt’altro che disprezzabile di un articolo letto al giorno (ovvero 250 articoli all’anno), la probabilità che il dottor Jones e un altro suo collega leggano lo stesso studio nello stesso anno è di 1 a 79. In altre parole, è sempre più difficile per gli esperti, anche in un settore specifico, trovare un terreno stabile, comune e condiviso di risultati; il risultato è una crescente frammentazione e divergenze che si manifestano sempre più frequentemente anche in ambito pubblico. Diventa infatti sempre più agevole, pescando in questo inesausto e sempre più articolato serbatoio informativo, sfidare e mettere in discussione pareri e competenze espresse dagli esperti su questioni di rilevanza pubblica. Questo contribuisce ad alimentare quella “crisi degli esperti” che si esprime ormai a vari livelli e in molteplici forme: dalla critica alle previsioni meteorologiche da parte di esponenti del mondo politico e imprenditoriale, al complesso intreccio tra competenza e responsabilità, fino al recente “Excelgate” che su blog e siti web di tutto il mondo ha messo in discussione un influente studio sul rapporto tra indebitamento e crescita economica, attribuendogli un macroscopico errore di calcolo".
Il punto è che il Web 2.0 spazza via il concetto di divisione del lavoro (fondante l’economia e la cultura occidentale da almeno due secoli) e quindi la reificazione del sapere disciplinare specialistico, a favore di quella di metadisciplinarietà che, proprio sfruttando le nuove piattaforme collaborative, può essere efficacemente messa in pratica. Con tutti i suoi numerosi limiti, Wikipedia ha avuto la meglio sull'Enciclopedia Britannica, l'autorevolezza sancita dalla community ha avuto il sopravvento sul medioevale "ipse dixit", garanzia di un sistema di potere, prima ancora che culturale, gerarchico e assolutistico. Come si rende conto, sia pure confusamente, lo stesso Bucchi: "La portata del fenomeno appare tale da rendere difficile indicare una via d’uscita. Gli autori dello studio gallese si interrogano su come ridurre la quantità ed elevare la qualità delle pubblicazioni specialistiche, ipotizzando ad esempio nuove forme di diffusione dei risultati aperte e collaborative (“wiki”)". Caro Bucchi e cari studiosi gallesi, qui non si tratta più di "ipotizzare", si tratta di prendere atto che una rivoluzione cognitiva, economica e organizzativa è in atto: i ragazzi nati dopo il 2000 lo hanno già capito da tempo, così come gli autori del Cluetrain Manifesto (1999) o, in tempi più recenti Dan Tapscott: è la Wikinomics bellezza!
Anche gli eroi di Ariminum Circus si stanno attrezzando: nell'Episodio 11 di S1, il Maestro condivide con il Capitano e il Piccolo Ed il sogno di fondare la prima Accademia del futuro: una piattaforma universitaria digitale, progettata dal Piccolo Ed, che consente a "professori/imprenditori clandestini", reclutati dal Capitano, di "esercitare associandosi in reti di docenti con cui condividono metodi e pensiero. Visionari che potrebbero accettare un numero limitato di discepoli, dislocati in tutto il mondo".
La stanza intelligente
David Weinberger ha scritto un saggio fondamentale, intitolato La stanza intelligente: la conoscenza come proprietà della Rete, che descrive questo passaggio epocale. I tratti salienti della nuova conoscenza sono i seguenti:
Ampia: nella sua accezione fondamentale, Internet è territorio “di tutti”, ed è (con le opportune distinzioni puntuali) accessibile “da tutti”. Date le dimensioni illimitate, può attingere ad un pozzo di conoscenze ed esperienze in grado di sopperire a qualsiasi esigenza.
Senza Confini: la Rete è in grado di travalicare qualsiasi “muro” creato da vincoli geografici, sociali, politici e culturali. I filtri presenti esistono soltanto ad uso, vantaggio e consumo dell’utente, ma non sono invalicabili.
Populista: la conoscenza su Internet non è discriminatoria, in quanto tutti vi possono contribuire, senza paletti all’ingresso.
Accreditata: il principio di autorevolezza su Internet è strettamente basato sul riconoscimento altrui. Una formula mutuata in parte dal meccanismo delle citazioni accademiche, lo stesso che ha dato vita all’algoritmo Pagerank di Google.
Irrisolta: abituati a secoli di “risposte definitive”, non possiamo non notare come sulla Rete qualsiasi idea/pensiero/teoria è controvertibile e contro-argomentabile. Questo non impedisce alle varie “fazioni” di andare ciascuna avanti per la propria strada.
Inclusiva: l’eliminazione del vincolo fisico (carta) ha reso obsoleto anche il vecchio approccio selettivo. Internet è illimitata e può contenere tutto, pertanto non è più necessario preoccuparsi di cosa archiviare e cosa no.
Cumulativa: l’assenza di vincoli pesa anche sul fattore temporale. Mentre l’archiviazione cartacea prevedeva che con il passare degli anni alcune informazioni del passato fossero destinate all’oblio, la conoscenza della Rete cresce con il tempo, ma resta un archivio integralmente consultabile.
"In pratica la struttura della nuova conoscenza non è più piramidale, ma è liquida, trasversale e ramificata come la Rete. Anzi, è la Rete”.
Rinascimento tecnologico
Le conclusioni di tutto questo le ha ben sintetizzate Michele Serres nel saggio Il Rinascimento tecnologico. Quelle banche dati che ci obbligano ad essere intelligenti, pubblicato in versione integrale su Vita e Pensiero diversi anni fa. Rileggerlo alla luce di quanto è successo con il Convid (l’esplosione dello smart working ad esempio) è illuminante: “Da quando siamo uomini, abitiamo in uno spazio polarizzato attorno a luoghi di concentrazione, case, villaggi e tesori diversi; in particolare, il luogo stesso in cui vivo e al quale riferisco il mio indirizzo. Viviamo in questo spazio perché costruire lo forma, abitare lo consolida e pensare consiste nel riprodurlo….
Le reti sostituiscono la concentrazione con la distribuzione. Da quando disponiamo, su una postazione portatile o sul telefonino, di tutti i possibili accessi ai beni o alle persone, abbiamo meno bisogno di costellazioni espresse. Perché anfiteatri, classi, riunioni e colloqui in un dato luogo, e perché una sede sociale, dal momento che lezioni e colloqui possono tenersi a distanza? Gli esempi culminano in quello dell’indirizzo. In tutto il corso della storia è stato riferito a un luogo, di abitazione o di lavoro, mentre oggi l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefono cellulare non indicano più un determinato luogo: un codice o una cifra, pura e semplice, basta. Quando tutti i punti del mondo godono di una sorta di equivalenza, la coppia qui e ora entra in crisi. Il concetto teologico di ubiquità – la capacità divina di essere ovunque – descrive meglio le nostre possibilità rispetto al funebre qui giace…
I piagnoni antichi e moderni deplorano la perdita dell’oralità, della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della Scrittura. Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze sperimentali, figlie della stampa.
Sapere consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria, nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte. Questo intendeva dire Rabelais con la celebre frase: Preferite una testa ben fatta a una testa piena.
Prima di poter allineare i libri nella loro libreria, Montaigne e i suoi antenati dotti dovevano imparare a memoria l’Iliade e Plutarco, l’Eneide e Tacito, se volevano averli a disposizione per meditare. L’autore degli Essais li cita ormai ricordandosi solo del loro posto sugli scaffali per consultarli: quanta economia! All’improvviso la pedagogia vuoterà la testa un tempo piena, e ne modellerà la forma senza preoccuparsi del contenuto, ormai inutile in quanto disponibile nei libri. Liberata della memoria, una “testa ben fatta” si volgerà ai fatti del mondo e della società per osservarli... Eccoci dunque consegnati, nudi, a un destino temibile, liberati dallo schiacciante obbligo delle note a piè di pagina: eccoci ridotti a diventare intelligenti!
Come nel Rinascimento, questo cambiamento d’intelletto ha avuto luogo più volte nella storia, ad esempio quando arrivarono i modelli astratti della geometria o gli esperimenti in fisica, quando appunto cambiavano le tecnologie. Così la storia della filosofia e la storia stessa, tributarie della storia della conoscenza, seguono quella dei supporti”.