Il Popolo del Libro e il Popolo dello Schermo
Visualizzare: questo è il quarto verbo proposto da Kelly per leggere la realtà contemporanea. La sua analisi prende le mosse dal fatto che gli schermi di qualunque dimensione continueranno a moltiplicarsi e rappresenteranno il diaframma verso l’informazione e la comunicazione. Questa evoluzione determina una dicotomia progressiva fra quelli che Kelly chiama il Popolo del Libro e il Popolo dello Schermo. Oggi siamo diventati, per la maggior parte, Popolo dello Schermo; una cultura che tende a ignorare la logica classica dei libri o la venerazione delle copie, preferendo al suo posto un flusso dinamico di pixel. Gravitiamo verso gli schermi: del cinema, della televisione, del computer, dell’iPhone, degli occhiali a realtà virtuale, dei tablet; nel prossimo futuro graviteremo verso schermi di megapixel brillanti che ricopriranno ogni superficie.
La cultura dello schermo è un mondo di flussi costanti, di infiniti assaggi musicali, di tagli frettolosi e di idee incomplete; è un fluire di tweet, titoli, instagram, messaggi informali e prime impressioni fluttuanti. Le nozioni non sono indipendenti ma altamente interconnesse a tutto il resto; la verità non è trasmessa dagli autori o dalle autorità ma viene assemblata in tempo reale, pezzo per pezzo, dallo stesso pubblico. Il Popolo dello Schermo produce i propri contenuti e costruisce le proprie certezze, le copie immobili non sono rilevanti quanto lo è invece un accesso fluido.
È una cultura veloce, come il trailer da trenta secondi di un film, liquida e indeterminata quanto una pagina di Wikipedia. Su uno schermo, le parole sono in movimento, si fondono in immagini, cambiano colore e forse perfino significato; a volte le parole non ci sono proprio, ma solo figure o diagrammi che potrebbero essere decifrati in significati diversi. Questa liquidità è terribilmente inquietante per qualunque civiltà basata sulla logica del testo. In questo mondo, il codice in rapido movimento (inteso come codice di programmazione informatico in continuo aggiornamento) è più importante della legge, che è fissa.
Il codice che si vede su uno schermo è perennemente ridefinibile dagli utenti, mentre la legge stampata sui libri non lo è. Eppure, il codice può plasmare il comportamento tanto quanto la legge, se non di più: se si vuole modificare il comportamento in Rete delle persone, basta semplicemente alterare sullo schermo gli algoritmi che lo governano, che di fatto regolano il comportamento collettivo o spingono le persone in una direzione preferenziale. Il Popolo del Libro preferisce le soluzioni fornite dalla legge, mentre quello dello Schermo individua la tecnologia come soluzione di tutti i problemi. La verità è che siamo in una fase di transizione, e lo scontro tra queste due culture (i neoluddisti e i tecnoentusiasti che spesso si scontrano in Arminum Circus, come nei commenti a questi post) si svolgerà in mezzo a noi, intesi anche come individui. Le persone moderne e istruite vivono il conflitto tra queste due modalità, e tale tensione diventerà la nuova normalità.
Visualizziamo su ogni scala e dimensione, dall’IMAX all’Apple Watch. Nel prossimo futuro non saremo mai molto lontani da uno schermo di qualche tipo, a cui guarderemo per primo per cercare risposte, amici, notizie, significati, e perfino il nostro senso di appartenenza, chi siamo e chi vogliamo essere: «Ehi Google, qual’è il senso della vita?».
Lo schermo e lo specchio
Fin qui Kelly. Vale tuttavia la pena di ricordare che questo tema è da molto tempo anche oggetto di studio di un bravo studioso italiano: Vanni Codeluppi. Riporto di seguito l’incipit del suo L’era dello schermo, edito da Franco Angeli.
“In un celebre spot pubblicitario che l’azienda ha fatto realizzare nel 1984 per il lancio del suo nuovo computer Macintosh una vasta platea di persone guardava passivamente un enorme schermo nel quale spiccava il primo piano di un Grande Fratello che parlava in continuazione. Si trattava di una chiara citazione del romanzo apocalittico 1984 di George Orwell. Ad un certo punto però una ragazza entrava in scena e distruggeva il grande schermo lanciandovi contro un martello. La ragazza rappresentava la giovane azienda Apple che voleva rompere le regole vigenti e imporre un’informatica a dimensione umana, mentre lo schermo era chiaramente il simbolo dell’IBM, la grande impresa multinazionale che all’epoca dominava il mercato dei computer.
Da allora non sono passati moltissimi anni, ma la finzione sembra essersi già avverata: il grande schermo si è frammentato in tanti piccoli schermi davanti ai quali le persone passano realmente molte ore della loro giornata. La cosa curiosa è che tali schermi molto spesso sono di un iPhone o un iPad venduti proprio da Apple. Dunque, come spesso succede, la piccola azienda alternativa ha preso il posto del suo potente avversario. Ma ciò che è interessante soprattutto osservare è che noi viviamo in un’epoca caratterizzata dalla presenza di una grande quantità di schermi. Piccoli o grandi che siano, ci accompagnano tutti i giorni nei nostri spostamenti e li incontriamo in ogni luogo nel quale ci rechiamo: uffici, negozi, strade, piazze, stazioni, ecc. Durante la nostra giornata, dunque, non facciamo che stabilire continuamente delle relazioni con qualche schermo. Persino gli eventi pubblici oggi hanno l’obbligo di essere ripresi e amplificati da schermi di grandi dimensioni. Ciò vale per i concerti musicali, per i comizi politici e persino per i festival culturali, i quali non possono fare a meno di ricorrere agli schermi, che spesso diventano i veri protagonisti degli eventi.
Se, come pensava Marshall McLuhan (McLuhan, Powers, 1992), lo schermo è solo apparentemente una specie di specchio sul quale i singoli individui e l’intera umanità possono vedere riflessa la propria immagine, mentre in realtà non è altro che un passaggio verso qualcosa (come ben sa la Alice che ha originato questa serie di post – vedi A che serve un libro senza immagini e conversazioni?), allora è il caso di chiedersi dove questo passaggio ci stia portando. Dove cioè stiamo andando a forza di entrare continuamente all’interno degli schermi. Ad esempio, interagendo con i personaggi dei videogiochi o dialogando con degli avatar virtuali. Cercare di capire dove i nostri passaggi attraverso gli schermi ci stiano portando è l’obiettivo primario che ci poniamo con questo libro”.
Interessante osservare che, già in un report dell’agosto 2012, Google affermava che il 90% di tutte le interazioni multimediali avveniva attraverso schermi, soprattutto di smartphone, laptop, tablet e TV. Da società di “multitaskers” siamo passati a una composta da “multiscreeners”, conclude Brian Solis.
Realtà schermata e rappresentazione romanzesca
Il punto di partenza del viaggio di Codeluppi “attraverso lo schermo” inizia agli albori della società occidentale, con l’invenzione della scrittura prima e soprattutto del teatro, poi: infatti, osserva citando De Kerckhove, “il teatro, invenzione greca di poco successiva a quella dell’alfabeto, è il modello più evidente dell’effetto della scrittura che ha sostituito il pensiero all’ascolto. Il teatro ci ha insegnato a vedere invece di udire gli insiemi simbolici, ci ha educato al punto di vista… Lo spettatore del teatro, pertanto, ha imparato a vedere in qualità di osservatore esterno le esperienze dei personaggi rappresentati e ad adottare mentalmente il punto di vista di tali personaggi”. Probabilmente però, sostiene Codeluppi, è solo a partire dalla fine del Seicento che l’idea di poter costruire attraverso le capacità proprie della mete e della fantasia umane una realtà artificiale dotata di una tale forza da potersi contrappore alla “vera realtà” è diventata realmente importante nelle società occidentali. Condivido a pieno questa idea, ben espressa anche nel Manifesto dello Humanistic Management (Etas, 2004): “è l’approccio dicotomico ad essere centrale nella costruzione e nel consolidamento del concetto di modernità. Per l’esperienza organizzativa le dicotomie più importanti sono quelle tra pianificazione strategica e azione, tra razionalità ed emozione, tra realtà e possibilità. Ma il moderno è, più in generale, il tempo della separazione, diretta conseguenza delle divisioni innestate dalla scienza nel ‘500 e che riconosce nella meditazione cartesiana il riferimento non solo simbolico. Su questa base, tutto viene sottoposto al vaglio di razionalità autoreferenti che non sono per definizione contenute nell’ordine ereditato dalla storia. Il mondo moderno deve essere ricostruito razionalmente: dunque, le gerarchie precedenti vanno messe alla prova, decostruite, costrette a giustificarsi. Tuttavia, la modernità non è il regno della fluidità perché propone proprie rigidità e propri criteri di ordinamento: oltre la separazione delle sfere, la costruzione di ordinamenti sociali razionali (e dunque rigidi) in ciascuna di esse, la delega ad automatismi, la riduzione della complessità che in precedenza alimentava il mondo della vita. Paradossalmente, però, la modernità è segnata dal progressivo emergere di una crisi nella certezza della dicotomia fondamentale: quella fra “realtà” e immaginazione. Sotto questo profilo, potremmo dire che il meccanismo schiacciasassi della modernità, macchina per la produttività che deresponsabilizza gli attori e depotenzia la politica, nasce già con delle crepe, invisibili alla superficie, che minano irreparabilmente le fondamenta di quello Scientific Management che di essa è una delle espressioni estreme”.
In questo quadro, Codeluppi sottolinea l’importanza fondamentale della nascita del romanzo moderno e del ruolo svolto dal teatro elisabettiano: “Il ruolo giocato dal teatro è stato fondamentale. Infatti in Inghilterra, prima del Cinquecento, il mondo della rappresentazione teatrale e quello della realtà tendevano a confondersi. Ciò spiega perché i ruoli degli attori venissero attribuiti a delle persone che nella realtà facevano lo stesso mestiere o qualcosa di simile. Ma progressivamente il mondo teatrale si è reso autonomo. Anzi, ha cominciato ad essere percepito come tanto più vero quanto più si rendeva indipendente dalla realtà che rappresentava, cioè quanto più si trasformava in finzione”.
Analogamente in Ariminum Circus lo Scrittore e la sua Ombra discutono in diverse occasioni del fatto il dubbio circa la struttura e la stessa consistenza ontologica del reale è al centro delle rappresentazioni teatrali che Shakespeare crea in Inghilterra sul finire del sedicesimo secolo e nei primissimi anni del diciassettesimo; caratterizza in Spagna la nascita del romanzo con il Don Chisciotte, apparso pochi mesi prima del Re Lear, nel 1605; induce Galileo a leggere il linguaggio matematico in cui è scritto il “grandissimo libro” della natura, confutando, nel Discorso sui massimi sistemi, che è del 1632, la concezione aristotelica del mondo sia pure, cautamente, come “pura ipotesi”, mentre il poeta Calderon della Barca proclama, senza mezzi termini, che “la vita è sogno” nel 1635; provoca la fondazione del nuovo metodo filosofico del francese Cartesio, che pubblica il proprio Discorso nel 1637. Si capisce dunque come mai questo periodo vede la straordinaria fortuna di concezioni politiche basate sul confronto con il “non luogo” introdotto da Tommaso Moro sul modello della Repubblica platonica un secolo prima, con intuizione anticipatrice, ma che solo adesso è visitato da molti illustri viaggiatori: basti citare la Città del Sole di Campanella, del 1623 o la Nuova Atlandide di Bacone, pubblicata postuma nel 1627. Per inciso, Jay e Daisy accennano a tutto questo in uno scambio di battute che apparirà in uno dei prossimi Episodi della Prima Stagione riscritti in 14 k.
La vetrinizzazione della società
Tornando a Codeluppi, la storia della modernità ha portato alla comparsa di “strumenti elettrici di comunicazione (radio, televisione, ecc.). Ma è stato negli ultimi decenni, grazie all’enorme sviluppo che ha caratterizzato le tecnologie mediatiche e informatiche, che le rappresentazioni della realtà hanno assunto un ruolo sempre più significativo all’interno della cultura sociale”.
Codeluppi apre qui una digressione sul tema del doppio, delle copie e dei simulacri, che da Platone passa attraverso Baudrillard e P.K. Dick, per arrivare alle esperienze contemporanee del consumo (vedi su questo anche il mio Amleto e i suoi doppi): “oggi le esperienze individuali sono vissute attraverso la rappresentazione che ne danno i media e non è un caso pertanto che si parli di «realtà aumentata», cioè di trattamento mediatico che riproduce il reale arricchendolo e migliorandolo. Il gigante dell’abbigliamento H&M, ad esempio, ricorre abitualmente per le sue pubblicità e i suoi cataloghi a modelli e modelle perfetti dal punto di vista estetico perché generati totalmente al computer mediante programmi di fotoritocco. E questa prassi oggi è molto diffusa”.
“Un fenomeno, scrive ancora, le cui origini possono essere fatte risalire alla nascita della vetrina, comparsa per la prima volta in Inghilterra all’inizio del Settecento. Vale a dire che il modello comunicativo imposto dalla vetrina, e basato sulla messa in scena spettacolare dei prodotti, si è esteso a tutta la superficie di vendita dei negozi e ai sempre più vasti luoghi di consumo che sono nati in seguito. Ciò ha avviato un processo di "vetrinizzazione" della società, cioè l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella logica di esposizione e di rappresentazione visiva che caratterizza le modalità comunicative della vetrina. Ne deriva che gli individui, se si mettono in vetrina, si mettono nel contempo anche in scena. Imparano cioè a rappresentarsi al meglio all’interno dei numerosi schermi che invadono la loro vita quotidiana”. In Ariminum Circus questa tendenza è sottolineata dall’ossessione per la moda di Helen e Daisy, ma anche dalle descrizioni minuziose di oggetti “brandizzati”, reali o immaginari.