Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Un capolavoro. O almeno così dicono. Sarà. Io di poesia non capisco nulla, però…
L’attacco, più che poetico, mi sembra prosastico. Come dire sempre mi piacque andare in ascensore.
In quel fu c’è un grossolano errore di grammatica, un verbo singolare che regge due soggetti, il colle e la siepe; furono, intendeva dire, solo che furono ha due sillabe di troppo per l’endecasillabo; e io mi chiedo se le necessità della metrica possano davvero giustificare un così grave strappo alla sintassi.
In quattro e quattr’otto e quattro dodici e tre quindici endecasillabi ci sono due quelle e sei questo, il che non è tollerabile nemmeno nelle lettere di Toto e Peppino o di Benigni e Troisi.
Noto poi cinque enjambement: un verso enjambe sul successivo quando il pensiero sta a cavallo tra i due, come se dicessi il presidente della corte – a capo – d’appello, un cucchiaio di bicarbonato – a capo – di sodio. È una costruzione viziosa, tipica dei cattivi versificatori, o dei grandi poeti che per un momento si lasciano andare, buttano giù, non hanno trovato di meglio, non sapevano come cavarsela.
Nel secondo verso la siepe è vicina a chi parla (“questa siepe”), tre versi dopo è lontana (“quella siepe”). D’accordo che la fisionomia della crosta terrestre è in continuo movimento, ma se nel frattempo non si è verificata una di quelle convulsioni che inghiottono Atlantide e formano la Cordigliera delle Ande, non è verosimile che la siepe si sia allontanata. O prima o dopo, il poeta ha preso male le misure. O forse no. Forse “quella” non è la siepe, ma la parte – a capo – dell’ultimo orizzonte. Ma allora, santo cielo, come si può appoggiare su un pronome, su uno slavatissimo pronome così staccato, un concetto del quale il lettore, a tale distanza, ha il diritto di non ricordarsi più?
Sedendo e rimirando ricorda una canzone della mia bisnonna, ai tempi di Re Umberto I, per celebrare le vertigini della bicicletta: sempre correndo, fantasticando…
Io nel pensier mi fingo; mi fingo vuol dire mi raffiguro, sottointeso mentalmente, perché non può essere altrimenti, quindi nel pensier è un di più, è una zeppa, quel gruppo di parole che il facitore di versi è costretto ad aggiungere allo stretto necessario per completare la riga: non troverete mai una zeppa in Dante o in Petrarca.
E la presente e viva il suon di lei. Chi è lei? Una donna, immagino, una donna che suona, perché altrimenti, se il riferimento fosse al suono della voce, si direbbe essa. Ma se questa donna non è mai stata nominata, come facciamo a capire di cosa si parla?
Il pensier mio si annega. Annegamento, dunque. Ma nell’ultimo verso si parla di naufragare. Cos’è che naufraga? Un vascello fantasma apparso all’ultimo momento? Decidiamoci: annegamento o naufragio? E poi, scusate, si annega in e non tra.
Se poi tutto ciò lo giustificate col jolly della licenza poetica, questo asso pigliatutto che azzera le balordaggini irreparabili dei grandi classici, allora alzo le mani in segno di resa.
Ma invece – temo – lo giustifichiate solo perché non avete la forza di ribellarvi, perché, insomma, che figura ci faccio se parlo male di una cosa che sin dall’infanzia mi hanno detto essere sublime?
E sapete, amici miei, a nulla vale leggere, seguire corsi di scrittura e riempire la propria libreria di tante belle cose, se poi tutta questa conoscenza non sfocia nel suo esito naturale: lo spirito critico e l’autonomia di giudizio, la forza di ribellarsi all’autorità, quando l’autorità va deposta.
La grandezza dei grandi del passato sta in tante, tantissime cose, ma mai nel loro stile. Mai. Ostinarsi a perpetuarlo – solo perché i grandi scrivevano così, uno, due, tre secoli fa – mi fa venir voglia di parafrasare la sconsolata osservazione di Keynes, per cui molti individui apparentemente colti e raffinati, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza, sono generalmente schiavi di qualche poeta o scrittore defunto.