Il respiro si faceva concitato. Osservavo rapito il sangue fresco ricoprirmi le dita e scivolare sotto le unghie, nella carne viva. Lo sentivo entrarmi dentro. Le mie labbra si incresparono in un sorriso malevolo, gli occhi si facevano strada fuori dalle orbite per godere a pieno la meravigliosa visione della mia nuova essenza.
Più osservavo l'ascia riaffiorare da quel mare di capelli scuri, più mi rendevo conto delle gioie che la semplice rabbia fine a se stessa mi donava. Tutto si abbandonò alla pura violenza dell'atto, un'esperienza orgasmica ed esaltante. Il suono del ferro affilato che entrò nell'osso cranico e l'emozione di potere che ne derivò, furono qualcosa di sublime. Mi sentì glorioso come un eroe, possente come un dio. Estrassi l'ascia lentamente per assaporare ogni singolo crepitio della testa. Sperai che il sangue non lubrificasse il tutto, poiché avrebbe interrotto prematuramente quell'armoniosa orgia di piaceri sensoriali. Il manico di legno era liscio e duro nella mia mano, sodo come il culo sporgente di una modella indiavolata che mi chiedeva insaziabilmente: Ancora!
Non appena intuì che il concerto di sangue e ossa stava per terminare, diedi uno strattone netto rivelando al mondo il maestoso risultato della mia mutazione. Mi sentì leggero. Alzai lo sguardo al soffitto respirando a pieni polmoni l'odore di eccitazione che inondava la stanza, innalzandomi sopra tutto e sopra tutti.
Rimasi immobile qualche attimo, fino a quando un turbamento orribile mi pervase. Una calda sensazione dietro la nuca iniziò a tediarmi. Un sapore acre, quasi amaro, mi asciugò la lingua all'istante. L'estasi mi stava abbandonando come un'amante volubile. I miei occhi si inumidirono di pura disperazione alla vista del sangue, che ora si palesava non più come trofeo di conquista nel nuovo me, ma come un marchio di condanna ad un tipo di esistenza che non avrei più tollerato. Tra le lacrime, iniziai una risata isterica e singhiozzante. Non potevo permettere che finisse così.
Presi l'ascia con entrambe le mani e continuai ciò che evidentemente non era ancora terminato. Con una forza mai provata, lanciai colpo dopo colpo. Sulla testa, sulle spalle, sul torace, sulle gambe. Ad ogni sferzata sentivo gli urti salire dal corpo di lei all'ascia e dall'ascia a me. La magnifica sensazione di grandezza tornava a crescere, la accumulavo dentro di me, impatto dopo impatto. I suoni sordi del ferro che aprivano la carne si susseguirono.
Colpo.
«Sì!».
Sempre di più. Colpo, colpo.
«Ancora! Sì!»
Sempre più veloce. Colpo colpo colpo!
«Sì!».
Colpo!
«Ancora!».
Colpo.
«Ancora!».
Colpo.
«Di più!».
Colpo.
«ANCORA!».
CRASH!
Il fragore della porcellana che esplodeva sul pavimento mi risvegliò dal lussureggiante torpore mentale come una pistolettata in pieno petto. La fioca luce del primo mattino entrava dalle finestre mentre gli occhi iniziarono a rimettere a fuoco la stanza. Mi guardai confusamente intorno per pochi istanti, ritornando rapidamente alla realtà. Il volto di mia moglie mi si parò davanti: «Stiamo ancora dormendo?». Non seppi cosa risponderle. Mi alzai dallo sgabello della cucina in cerca di un'altra tazza di caffè, continuando a strabuzzare gli occhi per togliermi dalla testa quello che aveva tutte le caratteristiche di un'allucinazione psicofisica. Cercai di non pensarci e di concentrarmi sul lavoro. Avevo programmato un incontro con dei clienti del Giappone per parlare di investimenti nel settore biomedico. Per la mia carriera quello sarebbe stato un giorno fatidico, non potevo permettermi scivoloni.
Finalmente riuscì a godermi il mio caffè. Dopo aver preso l'ultimo sorso mi diressi a salutare mia moglie per il consueto bacio di saluto. Chiara era ancora china a cercare gli ultimi pezzi di tazza sparsi sul pavimento, allora mi avvicinai: «Ci penso io, ho ancora cinque minuti». Lei si alzò in piedi: «Grazie. Intanto prendo uno straccio”, e si diresse allo stipetto sotto il lavandino mentre io mi piegai sulle ginocchia a raccogliere i piccoli frammenti bagnati. Lei fece un risolino: «Questa sera ho prenotato il nostro ristorante», le risposi con uno sbuffo, allungando il braccio verso un relitto di porcellana che affondava nel caffè sotto il tavolo: «Ancora non ho avuto la promozione». Afferrai l'avanzo di manico spezzato con forza e stupidamente mi tagliai emettendo un piccolo gemito. Mia moglie andò avanti: «Vada come vada, direi che una serata speciale ogni tanto ce la meritiamo», rimasi fermo senza rispondere, fermo a fissare il sangue che scendeva lungo la mano, a bocca aperta. Girai il dito verso il basso e quando il sangue arrivò all'unghia rivoltai la mano verso l'alto. Lei continuò: «I bambini dormiranno dai nonni stanotte, saremo solo io e te!». Il sangue va sotto l'unghia, la mia pelle si increspa in un sorriso: «Molto bene, tesoro».